sabato 16 febbraio 2013

You're an angel, I'll keep you from harm, talk to me sweetly, break both my arms.


Sono guarita. Fortunatamente non devo più operarmi.
Sono fuori di testa. Non dormo properly da due notti. Mi sembra di perdere tempo.
E io ho i miei ritmi. Ho 100 verbi irregolari russi da imparare, pur sapendo che il compito si baserà su altri. "L'importante è che sappiate le regole". Quindi io so 100 verbi russi, e il compito andrà male lo stesso.
Sono state due settimane di "pausa" dall'università, che sommate a quelle della malattia... Insomma, più di un mese dentro casa. Assurdo.
Ai miei non ho detto nulla. Avevo paura mi chiedessero di tornare, e io a Roma non voglio tornare.

Dicevo, sì. Sono fuori di testa. Passo poi la notte a fare dettati di francese, e poi mi metto a disegnare. Comincio verso le 2 circa di solito. Metto lui, il mio cantante, in sottofondo e il tempo comincia ad assumere forme strane. In un secondo arriva l'alba. Improvvisamente vedo la luce arrivare, e allora è come se mi svegliassi da una trance. Guardo la finestra, poi guardo il foglio. Poi guardo la mia mano sinistra. Le dita sporche di carboncino e matita e penna e pennarello. Segni neri in faccia. Un bicchiere pieno di sigarette. Dove sono?

Mi viene l'ansia. Ora non posso dormire, sono le 8 di mattina. Bevo tre tazze di tè. Guardo un film degli anni '60 in francese che mi ha passato un mio amico hipster,, ma scopro che mi annoia, è troppo lento. Dopo mezz'ora spengo. Vado su Internet, controllo le mail, dei Couchsurfers vorrebbero venire a Trieste. Una francese. Sarebbe bello ospitare una francese. Chissà. E' che in mezzo ho degli esami. Un russo. Sarebbe bello ospitare un russo. Ma dei russi non mi fido molto.
Controllo i turni per le serate di venerdì e sabato della mia tana. Nessuno si è messo per il turno di sabato, mi offro io e mando una mail al boss. Fisso l'anta di vetro della libreria, intontita, e poi un'idea mi fulmina. Farò dei disegni e li attaccherò dietro al vetro, così non si vedranno tutti quei libracci scolastici.
Ma non ora, devo ponderare.

Prendo i miei tre disegni. Prendo uno dei due quadri a terra comprati da Ikea a Villesse nei quali misi due poster del mio amato Mucha comprati a Praga. Apro quello che non ha le lunghezze giuste per il poster. Ci metto i miei tre disegni, lo appendo al corridoio. Prendo altri poster, di Klimt, anche se Klimt non mi piace, di Schiele, anche se è pornografico. Attacco tutto al muro.

Mi siedo per terra, all'entrata. Guardo tutto quello che c'è e lo annoto. Attaccapanni, specchio, quadro, armadio, finestra, scarpe, ombrello... Mi sposto. Prendo quattro dizionari. Vado in camera e mi siedo sul tappeto. Cerco tutte le parole in francese, inglese, norvegese e russo. Le scrivo su dei post it colorati e li attacco sulle cose.

Pulisco la cucina. Mi cade tutto il tè per terra. Lascio così, ci passo coi piedi sopra, non m'importa. Sto finendo il cibo, ma ho ancora le barrette. Sti cazzi. Sto finendo le sigarette. Devo uscire, sì. Cazzo, che palle.

Alle 12 posso cantare. Prendo gli accordi delle canzoni di lui, prendo la chitarra, mi metto in bagno, che l'acustica è migliore. Suono, canto. La voce è roca, è stanca, nemmeno lei in fondo ha dormito. Ma mi piace. Poi ricanto la stessa canzone una seconda volta e mi fa schifo. Mi arrabbio. E allora suono Gnossienne n1 su quel pianoforte scordatissimo, e mi viene in mente il film Paris di Klapisch, e poi mi viene in mente che anche in quel film francese di quattro ore fa c'era lo stesso pezzo.

Chiudo gli occhi mentre la suono. Sì, Gnossienne è facile, posso permetterlo. E con gli occhi chiusi torno a certe sensazioni e alle strade di Parigi, le mie e quelle di tutti i registi e gli scrittori incontrati sulla mia via.
Poi ascolto della musica norvegese e cerco di cantare in norvegese. E' divertente.

Continuo a studiare russo. Parlo con un paio di amiche, mia zia mi chiama, mia madre mi chiede cos'ho fatto di bello all'università via skype, io le dico un sacco di cose. Guardo un telefilm stupido in inglese, ma a me fa tanto ridere. Leggo La danza di Natasha di Figes. Ho l'ansia perché non sto studiando tanto, in fondo.

Mi metto alla scrivania. Prendo un foglio e scrivo una cosa che volevo scrivere da tanto tempo, ma ora già non la ricordo più molto bene. Arrotolo il foglio e lo lascio cadere dentro una delle decine di bottiglie di vino che ho conservato. Prendo uno dei dieci tappi che ho conservato, chiudo la bottiglia e la metto sull'armadio di fronte all'entrata. La bottiglia sembra comunque vuota. Sorrido. Mi sembra un gioco perverso. Chiunque entri qui sfiorerà una delle mie più intime considerazioni ed emozioni, e nemmeno se ne accorgerà.

Mi metto a letto. E metto la sveglia fra tre ore.
Mi sveglio e sono sveglissima e passo l'aspirapolvere.

Il cielo si fa più scuro. Bevo altro tè. Gli occhi sempre più aperti. Guardo il festival, un po' non lo guardo. Bevo tè bevo tè bevo tè.

Leggo delle cose sulla storia e la teoria della traduzione, mi stufo quasi subito.
Si fanno le due.


La sua musica mi viene a chiamare.
Tutto ricomincia. Un'altra volta.

Sono fuori di testa
Sono fori nella testa
Suono fiera alla festa

Sto facendo alcune considerazioni importanti. Magari poi le dirò anche, fra un po'.

Sto diventando pazza.

Mi piace. Me ne compiaccio.

lunedì 4 febbraio 2013

Ti scrivo una poesia, ma io non so scrivere poesie.



Ancora tengo con me quel filtro arrotolato dentro ad un biglietto della metropolitana di Milano,
che nascondesti nelle fessure dei grandi sassi della casa di un paese della Toscana.
Il mio posto.

 Del mio posto ti parlai sopra un letto sotto le assi di un legno che strideva dal dolore,
circondato da un bosco pieno di puttane
e da scogli di terra
e da sogni spezzati e rinati ed ancora spezzati
e fiori profumati del maggio che si trovava alle porte di una Roma troppo stretta per noi.
Ma soprattutto per me.
Ti parlai dei miei anni nel calore dell’infanzia,
degli incubi che mi soffocavano nei suoi vicoli e dei gatti che mi seguivano nelle piazze,
dei bambini dai quali scappavo, intimidita
e che nessuno in quel paese era mai arrivato con me.
Chiudevo gli occhi e sfioravo la tua mano, e il buio di quel maggio ci entrò dentro
esattamente come tutte le altre notti della nostra vita.
Ti parlai del mio paese
ti parlai dei miei viaggi che avrei compiuto nel gelo sceso sui miei vent’anni,
e ti svelai, stringendo la mia voce al tuo orecchio,
che non sarei più tornata.

 Noi non ci amiamo.
Lo sigillammo con un bacio.

 Attraversai le montagne col nostro giuramento stretto fra le labbra
Mi infilai nelle città degli altri nelle vite degli altri nei letti degli altri.
Attraversai il mare con la nostra promessa rinchiusa fra le palpebre degli occhi
Lasciai cavalcare il imo spirito fra le foreste dell’Inghilterra
attenta a non ferirmi le braccia con i suoi rami, attenta a non cadere sulle sue radici
Ma un vento nato dai tuoi respiri mi parlò di te
E di come giungesti alle colline silenziosamente
Ed io corsi per miglia fino alle alte mura,
fino alle fessure dei grandi sassi,
con la nostra bugia stretta in un pugno.
Nessuno era mai arrivato lì con me
e  tu eri già sparito.

 Stringevo il tuo filtro ed in bocca avevo già il mio,
seduta sugli ultimi gradini della fortezza.
Le labbra secche, gli occhi vuoti, le mani insanguinate.
Il mio posto violentato dalla tua presenza, i miei incubi ormai svelati a te.
Tenni il tuo filtro ed il mio lo gettai lontano, regalandolo al tramonto.
Mio padre posò la sua lacrima sulla mia spalla e mi sussurrò che era tempo di andare
Tempo per me di non tornare mai più.
Percorsi le strade del disgelo di settembre.
Il vento di questa città mi parla ancora,
il vento del nord continua a usare la tua voce
Gioca a torturarmi.

 Accendo una sigaretta e penso al tuo filtro avvolto in quel biglietto.
Dentro c’è il nostro egoismo, la nostra paura
Dentro ci sono i mesi dell’assenza, della distanza.
Dentro ci sono tutte le stagioni che non abbiamo mai vissuto
Persino quella di stanotte.
La neve di Trieste, la pioggia di Roma.
Quella Roma che mi soffocava,
Quella Roma che dentro ha te,
L'unica cosa che mi da respiro.

 Io ho viaggiato tanto. Ho lasciato tanto.
Eppure, penso alla tua bocca, e trattengo un sorriso.
Io, a Milano, non ci sono mai stata.