giovedì 26 luglio 2012

Cause (e conseguenze?) dello stato interessante.

Cos'accade?
Eh. Nulla, nulla di nuovo. Se non fosse che ultimamente, dopo il mio micidiale incontro col francese non francese, ho ricominciato a pormi quelle domande che erano lì a galleggiare da un bel po'.
Io lo so che sono fatta così. Da sempre, ho cercato il dolore. Ma nemmeno. Cercavo l'astruso, il complicato, il difficile, il sofferto e sudato, il faticossissimo. E ci sono sempre cascata dentro, facendomi risucchiare.
Ergo, non ho molta confidenza con la serenità, il piacere, la gioia, quella pura. Il lasciarsi andare. Che se mi lascio andare è sempre in negativo. Lascio sempre andare le parti peggiori di me.

Dicono che il sesso sia estremamente legato al cibo.
E io col cibo non ho mai avuto un buon rapporto, nemmeno da piccola. Mi ha sempre provocato dolore. Mal di stomaco perenne, ogni volta che infilo qualcosa in bocca e non mi sdraio almeno venti minuti per digerire. Pesantezze, nausee. E poi odio. Ossessione allo stesso tempo, necessità allo stesso tempo. E quindi una frustrazione estrema, ogni volta.
E ultimamente ho capito che il sesso, il mio sesso, può essere descritto con gli stessi esatti aggettivi, allo stesso modo.

Non mi sono mai masturbata sul serio. L'ultima volta risale a sei anni fa, più per curiosità che per altro. E in effetti mi sembrava di stare assistendo alla mia stessa visita ginecologica. Niente di niente.
Quando sento quella voglia, non la collego allo sfogo fisico, semplicemente. O comunque, non riesco a sfogarla fisicamente, quindi se ne rimane lì a latitare, dentro di me.
Non ho mai avuto un orgasmo. O almeno credo. Voglio dire, se l'avessi avuto me ne sarei accorta, no? E se anche l'avessi avuto, allora non è poi questa gran cosa, anzi.
E' un circolo vizioso, perchè il piacere potrei prendermelo, avrei il diritto di prendermelo. E invece non so mai come gestire la situazione, perchè qualunque cosa faccia non mi suscita il benchè minimo brivido. "Usami", mi sono sentita dire.
Ma io non so che farmene, di te. Vorrei, ma staremmo qui a perder tempo, perchè io non sento niente.

Adoro tutto ciò che c'è prima del rimanere lì, nudi. Li faccio impazzire, e loro fanno impazzire me. Riesco ad infilarmi nei desideri dei loro istinti iniziali, a rispondere alla reazione di ogni loro muscolo, col solo scopo di farmi desiderare, perchè è quello il segreto. E' il loro sospiro affannato, le loro gambe che tremano, le loro unghie che mi distruggono, a smuovermi il sangue. Io mi dico che è la volta buona, loro si dicono che stanno per farsi la scopata migliore della loro vita. Poi ci si ritrova in uno scontro fra corpi incongruenti, che certe volte si conclude anche con quegli estenuanti silenzi imbarazzanti.
Quando doveva essere amore mi sentivo sola, e piangevo sotto i colpi di un menefreghismo sconcertante, senza che lui se ne accorgesse. Quando non lo era mi chiedevo semplicemente cosa stessi facendo.

Sono convinta che a me il sesso piacerebbe tanto, se lo avvertissi, se lo sentissi.
E' che visto che non sono ingrado di ricevere pensavo fosse meglio dare sempre. Dedicarsi completamente all'altro, ogni volta. Ma dare, dare, dare. Dare prosciuga, se non ottieni nulla in cambio. Dare e basta ti fa sentire peggio di una puttana. Nessuno ti ripaga, ma nemmeno ti paga.

Probabilmente è la testa che non funziona. Mi sono fissata, dalle prime volte. Mi sono chiusa in un ambiente apatico. Ma no, nemmeno quando mi sentivo la ragazza più libera e felice della terra, nemmeno in quei momenti.
E allora pensi che è il corpo che non funziona. Guardi quei fianchi troppo larghi, e ti dici che è per questo. Pensi ai danni collaterali dell'aborto, e ti dici che è per questo. Pensi a tutte le puttante di teorie dei ricercatori, e ti dici che è vero. Certi corpi non sono fatti per il piacere. Il mio è uno di quelli.

E io non me ne farei un cruccio, sul serio. Una frigida non ha problemi ad essere frigida. E' solo che non capisco. Io lo amerei, il sesso, lo giuro. Non capisco perchè sia così, ogni volta. Perchè un'Arianna che mi abita in pancia abbia deciso ciò. Perchè il sesso mi allontani dalle persone invece di avvicinarmi.

Ho solo paura che possa capitare quando sarà Amore. Di trovarmi sola, staccata, distante. Ho paura che il mio corpo manderà tutto a puttane.

Il mio dannato corpo.
Come sempre. Da anni, in forme sempre diverse e soprendenti. Come una gravidanza.
Ma alla fine nulla di nuovo. Veramente nulla di nuovo.

lunedì 16 luglio 2012

Sapori lontani.

Sono dei sapori lontani quelli delle ultime giornate, delle ultime nottate. Dei sapori che hanno la stessa consistenza del passato, ma i brividi sono tutti nuovi.
Sono forte. E' vero, non ci credevo, non lo sapevo. Sono una bambina che ha poco più di vent'anni e che è forte. Ho imparato a stare da sola, e ho imparato a stare in mezzo alla gente.
Una bambina dai capelli rossi che vaga fra le vie di una città sconosciuta. Senza genitori, persa, stringendo il suo orsacchiotto di peluche, una sigaretta. Mille sigarette. Che non ha paura di niente e di nessuno.
Che sorride a tutti, perchè vuole conoscere e farsi conoscere da tutti.

Una pelle nera si è posata sulla mia color latte. Guardavo le nostre mani intrecciate, sull'ultimo treno preso per un soffio; un fiatone lungo mezzo viaggio. Ipnotizzata dalla perfetta combinazione, dalla perfetta e bilanciata intensità di chiaro e scuro fra di noi.
- Nous avons d'la chance, ma petite - Laisse tombeeeer, putain.
Mi sento una piccola sposina. Ogni notte è nostra, e non c'è mai nessuna fretta, nemmeno quando si corre.
Nel cuore di un buio spaventoso, fuori dalla città, ci siamo seduti sul ciglio di una strada a fumare. - J'vais fumer tranquille.  - Mais, tu sais, moi aussi.

Penso a quando era aprile. Il primo aprile. E ora di nuovo il dolore, quello fisico. E lo sforzo mentale, l'immenso sforzo mentale. Pensavo a dove mi trovavo, ad aprile, e a dove mi trovo ora. Con la mia vita, la mia storia, i miei luoghi. Pensavo che non me ne frega più un cazzo del passato, che io voglio vivermi ogni cosa bella, voglio vivermi anche la sofferenza. Ma voglio decidere io. Così ho levato le mie mani dalla faccia, e ho smesso di fare no con la testa.

Ho smesso di fare i capricci.

Quello stesso sapore lontano mi porta il sale delle lacrime, di quelle migliaia di lacrime spese in questi ultimi mesi. Una sofferenza che conoscevo bene. Ma ora delle dita mi toccano e mi asciugano, altri occhi piangono con me. Il nuovo sapore di un diverso sale.

Non pensavo che sarebbe accaduto dopo solo tre mesi. Di essere pronta, in un certo senso, già. Non pensavo di essere così forte.

Già. Così forte.

Talmente forte che ritornano anche i sapori di anni fa, stavolta. Quelli veri. Quelli degli attacchi di fame a tutte le ore. Quelli che sei in classe, un compagno compra dei biscotti per il compleanno, e tu sei lì seduta, che ne hai già mangiati tre, uno in più rispetto a tutti gli altri, ma non riesci a smettere di fissare quella scatolina. La lezione continua, tutti seguono e chi non segue fa altro, e tu ti giri ogni tre secondi a guardare la scatolina.
Quegli attacchi di fame che venivano dai vuoti. Vuoti di stomaco e vuoti di anima. Ricordo il sapore di ogni morso, perso o inghiottito.
E' cominciata ieri notte. Pensavo fosse solo semplice fame. Ma invece erano le 3, ero tornata da un'ora e mezza, morivo di sonno, e non smettevo. Ho continuato oggi, e non mi sono sentita davvero a mio agio a mangiare con la gente, perchè avrei voluto levar loro tutto quello che avevano davanti e sbranarlo.

Ritornano certi processi mentali. Così, improvvisamente. E' il processo di un digiuno che ormai è alle porte, non posso fermarlo.

Ma io lo so, so tutto.
Accade ogni fottuta volta che mi sento forte. Ogni volta che mi sento bene.
E allora voglio di più, pretendo di più, perchè so di avere il potere.

Chissà cos'accadrà, alla bambina dai capelli rossi in terra straniera, con tutti questi sapori lontani scritti sulla lingua e fra le gambe.

giovedì 12 luglio 2012

Une vi(ll)e très agréable.

Insomma, ricapitolando:

"Seguo un corso alla Sorbonne":

- Il professore non è bello, di più. Non è figo, di più. Non è simpatico, di più. Uno dei neri più carismatici, attraenti, dinamici che abbia mai visto. Con quegli occhiali che gli danno il giusto grado di 'uomo accademico' e sti fottuti denti bianchi che di prima mattina ti uccidono gli occhi di bellezza. Credo sia gay.
- La mia amichetta di banco è un'ebreuzza. In realtà lo è la madre, lei non so, ha questa catenina importante con la stella, ma di più non chiedo. Il padre è italiano, lei ha vissuto in Spagna, poi in Argentina, poi in Iraq, ed infine in America, a Boston. Ha 22 anni ed è sposata. Non ha una vita sociale, non esce mai. E' tipo troppo strana. Parigi per lei è Marte. Il mio obiettivo è quello di farle fare una cazzata delle mie entro il 31 luglio. Pian piano... Ci sto lavorando.
- Il corso è di cinque ore al giorno. L'ora di fonetica è divertentissima perchè stai con i cuffioni, il microfono e passi tutto il tempo a registrare cazzate. Ogni tanto metto pausa per sentire le americane che si sforzano di fare le francesi, e rido sotto i baffi. Torno alle 16 e poi devo fare i compiti. Domani ho una verifica e ancora devo  cominciare a studiare. Vaffanculo.
- Le americane sono stupide, la svedese è piccolina e con la vocina, l'autraliana ha una personalità talmente forte da far paura a tutti, l'australiano è tutto mechato, il polacco fa ridere, il colombiano gioca a recitare una parte fra l'hombre caliente e l'homme fatal, gli spagnoli sembrano la brutta copia degli italiani.


"Vivo alla Maison de l'Italie":

- La metà delle persone che la abitano sono italiane. Cercano di mischiare un po'. Marocchine, brasiliane, svedesi. E infatti a cena si parla in francese.
- Il 98% degli italiani sono ricercatori.
- L'1% lavora per delle compagnie francesi (ovviamente in ambito informatico-scientifico)
- L'1% studia materie umanitstiche.
- L'altra sera un fisico spiegava ad un chirurgo l'esperimento che aveva fatto quella mattina, che si sarebbe legato in futuro alla fisica biomedica, per combattere il cancro.
- Quando mi chiedono cosa faccio quasi mi vergogno, perchè nemmeno ho cominciato e sicuramente io non salverò vite.


"Ho un petit ami":

- E' nero, è bello, parla tante lingue.
- Mi manda i messaggini tutte le sere ed è molto dolce. Oserei dire troppo, ma non so. Mi sta bene così, alla fine.
- Ieri mi ha chiamato. Io gli ho detto che costa troppo, e che in più non lo capisco bene, al telefono. Ma lui voleva solo sentire la mia voce. E accertarsi che domani vada con lui a scassarmi da qualche parte. Ovviamente.
- Quando siamo usciti la seconda sera mi ha portato in un discopub. Era una trappola, in realtà i suoi amici non sono mai venuti. A me questi posti fanno cagare, soprattutto perchè non so ballare e non si riesce a parlare come cristo comanda, che già per me qui è difficile. E invece mi sono divertita. Sono tornata alla maison alle tre e mezzo. Del pomeriggio.
Ha pagato tutto lui. Tutto. Cioè. L'entrata, il guardaroba, i trecento cocktail, e pure le sigarette. "Stasera sei libera, non pensare a nulla, al portafogli, alle giacche, al fatto che non sai ballare. Domani non hai nemmeno lezione. Non pensare a nulla, pensa solo a me, e alla tua libertà".
Beh, si, nice try. Mi veniva da ridere perchè sapevo esattamente quali fossero le sue intenzioni.
Però, insomma, sono stata con quel K che in un anno e tre mesi m'ha portato solo una volta al ristorante (e gli ho anche alzato dei soldi che non rivedrò mai più), e... Passare dal dover pagare tutto te al non doverti preoccupare di nulla è très agréable. Mi sta sul cazzo per principio, però, insomma, per una volta... E' stato un bel cliché da provare.


"Parigi costa caro":

- Gli affitti, i trasporti. Sì. 62 euro di abbonamento mensile, ma mi posso girare la fottuta Parigi in lungo e in largo, in mezz'ora sono ovunque.
- Per il resto, manco per niente. Forse mangerò come i criceti, ma con 40 euro di spesa io ci campo per dieci giorni.

Il sole è in alto fino alle 23, fa freddo e fa piacere, ci sono i cinema all'aperto, le donne stanno in giro da sole fino alle 3 di notte senza alcun problema e l'altro giorno hanno trovato un boa di tre metri nella Senna.

Ditemi voi come faccio, io, a tornare in Italia.  Il boa, cioè.
Nun se può, devo trovare una soluzione.

sabato 7 luglio 2012

Incontri a Parigi.

La premessa è che io sono pazza e prima o poi mi metterò in situazioni molto pericolose.

Venerdì sera. Venerdì sera a Parigi.
Venerdì sera a Parigi, sul corridoio della Maison de l'Italie, alla Città Universitaria, intenta a chiudere a chiave la camera.
"Ehi, tu vas où?" (andò vai?)
"J'ai un rendez-vous avec une amie." (me devo beccà co una)
"Nous allons à... J'étais en train de te le demander. Est-que tu veux venir avec nous?" (noi stamo annà... te lo stavo a chiede. Stai a venì co noi?)
"Non, non, desolée, je dois aller. Bonne soirée!" (Te pare. Famme annà. Bella pe tutti)

E esco. Ma mica era vero. Non avevo nessun appuntamento. Stanotte avrei dovuto fare qualcosa di particolare. Non so... Avevo questa sensazione, lo dicevo prima all'umbra laureata in letteratura francese: "Devo fare qualcosa. Qui mi manca ancora qualcosa.". Una febbre, la smania di abbuffarmi. Di qualche emozione.

E così ho preso la RER. Con la cartina in mano, cercavo uno dei tanti luoghi nei quali mi sono sempre sentita in pace. Ma stanotte non volevo la pace, no. Volevo quel 'qualcosa', per questo non sapevo dove andare.
- Non ho mai visto Parigi dal Sacro Cuore di notte -
Attraverso chilometri e chilometri di città, addirittura un fiume, da sud a nord, sottoterra, in venti minuti.
Scale, scale, scale. Il respiro affannato. La musica. Tanta gente. A destra il Sacro Cuore dorato che fa paura. A sinistra la città ai miei piedi. Una città tinta d'arancio. C'è la luna, il cielo è scuro ma non ancora nero, che sono solo le 23, e non so perchè in questo mese il sole ci mette tantissimo ad andarsene. Le nuvole rosate. Se fossi stata una pittrice avrei pianto. Sì, avrei pianto e non avrei dipinto.

Vago un po' fra la gente. Poi scendo un po'. Ci sono dei neri con delle casse che tra di loro rappano. Niente freestyle, ascolto Mockingbird di Eminem. Lui è americano, per forza. Ha un accento impeccabile. Sono contenta, sono sempre contenta quando mi siedo ad ascoltare gente che suona e canta. Dice di sorridere, e io sorrido, catturata da quel gruppo.

Poi accade.
Un ragazzo si siede vicino a me. Non ricordo qual è stata la prima cosa che ha detto. So solo che non so per quale motivo siamo passati a parlare inglese e poi francese e poi inglese e poi francese. Dopo una settimana in cui parli solo per 10 minuti l'italiano e per tutto il tempo francese, tornare all'inglese diventa veramente difficile. La testa mi faceva male, mischiavo tutto.
Ma a lui piaceva.
"Je suis le maitre. I'll be your teacher. Yes. Trust me, in one week you'll be speaking le dialect de la ville" E si prendeva gioco di me.
Ma era serio, non sorrideva nemmeno una volta.
Lui si chiama Tito. Sua madre è del Sudan, suo padre del sudafrica, posto non meglio specificato. Suo padre che poi è morto. Ha tre fratelli qui, uno in America e una sorella in Olanda. L'arabo e l'inglese sono le sue prime lingue. A 12 si è trasferito a Parigi, e ha imparato il francese. Sa un po' di greco, e ora cerca di studiare bene il russo. Da quel che ho capito lui fa qualche lavoro di traduzione, quando capita.

Ma porca puttana, penso. Non è possibile.
(Sono tranquilla. A Parigi sono sempre tranquilla, anche quando mi ferma qualche pazzo. Semplicemente lo ascolto e vedo cosa posso fare per lui. Di solito sono sempre cose sensate.)

Mi dice tutto questo in dieci minuti. E non so come, dopo cinque minuti mi sono ritrovata con una birra in mano, due polacche, un russo e dei neri tutt'intorno. I neri francesi che non sono francesi.
Dio.
Suo fratello mi ha parlato della vita di merda che si fa qui, del lavoro che è fatica, e del suo sogno americano.
Quando con Tito ho pronunciato la parola Balotelli tutti si sono girati.
"HEI HEI! BALOTELLI! SHE'S ITALIAN!"
E da lì è stata la fine. Io, che di calcio non so un cazzo, sono stata eletta regina.
"Hei, chill out, Balotelli is like that! Arianna, tell him that I'm right. She's italian, so she knows."
E io ho cominciato a parlare di Balotelli. Io.

Immaginatevi la scena.
Io seduta su una panchina al Sacro Cuore, circondata da neri, a raccontare e a dare opinioni su Balotelli utilizzando quel poco di slang inglese e francese che so per darmi un tono.

Poi io e Tito. Tito è bello. Ha gli occhi molto seri. Ma quando sorride, tutto il suo viso cambia e ti emoziona, per quant'è vero. O forse è solo un sorriso un po' triste.
Tito è un mascalzone e stanotte mi ha raccontato un sacco di balle. Del tipo che cerca la ragazza giusta, che è da due anni che non sta con nessuna nessuna ma proprio nessuna, che è una persona molto buona e lì intorno sono tutti come dei fratelli e delle sorelle (a questo però ci credo). Che non 'fuma' tanto, che non beve tanto, e che è comunque musulmano, a suo modo.
Ma non mi importava delle balle, non mi importava del fatto che volesse darsi un tono serioso e profondo, un po'. Quel momento me lo sono preso così com'era.
Mi ha detto che lui ha un buon istinto. Inizialmente apre il cuore a tutti, ma gli ci vuole poco a capire chi ha davanti, e quindi prende le misure giuste. Mi ha detto che è stato contento che io avessi capito che non aveva delle intenzioni strane, quando mi ha chiesto di seguirlo.
Perchè quando mi ha visto lì, da sola, a sorridere e a battere il piede, il suo cuore gli ha detto che doveva conoscermi. E gli ci è voluto poco perchè capissse che sono una ragazza apposto.
"You're a nice girl, I like you. That's why I'd like to meet you again. Just if you really want, you know..."
Mi ha dato il suo numero. Io l'ho preso.
Poi se n'è andato e io sono rimasta con la polacca ed un fratello.
Ho preso l'ultima metro per un soffio. Ho camminato per la mia città, sono arrivata qui e non ho sonno.

Non so cosa mi dicano certe sere.
Non so perchè mi sia fidata così ingenuamente di quel ragazzo, che mi ha raccontato storie incredibili e bellissime. Sono degli istinti, credo. Di solito i miei istinti sbagliano quasi sempre. Invece stanotte è stata una notte. Credo una delle più vere vissute qui a Parigi. Il problema sociale e di integrazione che c'è di fondo in realtà non è molto in fondo. La bontà, nonostante tutto. La forza. La mancanza di radici.
Io sono rimasta incantata. Incantata da quella gente.

Probabilmente Tito non lo chiamerò mai, se non in casi di estrema solitudine. E poi mi piace tenerlo così. Tenermi un ricordo, un episodio.

Certe volte mi chiedo quanto sia perfetto il mondo, e quanto sia delicato l'equilibrio. Un minuto in più, un minuto in meno, e alcune vite non si sarebbero mai incontrate.
Chissà cosa abbiamo lasciato, in tutti questi anni, senza saperlo.
Questa notte la scrivo perchè questa notte doveva andare esattamente così. Tutto era in equilibrio. Ho seguito quello che il mondo mi ha chiesto di fare. Come una brava bambina, o un bravo animale.

Vivere un po'.

giovedì 5 luglio 2012

Il perpetuo ricordo della conclusione di uno stato interessante.

Ultimo atto.
Come l'ultima volta. Casa di G. Notte. In tre in un letto da una piazza e mezzo. Il sonno non arrivava, no, o quando lo faceva, se ne andava di fretta. Il calore, l'immobilità. La luce lampeggiante nel corridoio, la sveglia della madre, che è sordomuta, e la mette due ore prima per abituarsi alla luce. Sono andata al bagno. Avevo voglia di bere, ma non potevo. "Da mezzanotte in poi fai come se non avessi la bocca: niente cibo, niente sigarette. Niente acqua".
Tornando, mi sono fermata a guardarle, sotto quella luce lampeggiante. F al lato e su un lato. Uno spazio, poi G. Poi una spanna di letto, il mio lato. Ho sorriso. Avrei voluto far loro una carezza. Mi sono infilata nel mio lato ristretto, e ho atteso. Ogni tanto una ginocchiata di G, ogni tanto una mano che mi sfiorava le guance. Chissà cose sognava. Chissà se sognava, o è una sorta di istinto, il suo, che la fa avvicinare alle persone anche durante il sonno.
Non avevo ansie, non avevo paure. Volevo liberarmi, finalmente.

Mattina. Come l'ultima volta. Il corridoio. Gli ultimi abbracci. Poi dentro altre cinque donne. Una la riconoscevo, era una ragazza vestita molto bene, che era sempre accompagnata dal suo fidanzato rasta e trasandato. Lui se ne stava là, per tutto il tempo, in sala d'attesa, ad aspettarla. Mi sembravano così teneri.

Ci chiamano subito. Tre di qua, tre di là. Noi giovani in una stanza, loro attempate in un'altra.
Spogliatevi, mettetevi il pigiama.
Mettetevi a letto.
Non parliamo. Tutta la recita dell'altra volta non c'era. Troppo faticoso, e inutile, in quel momento. Nessuna ne aveva voglia, eravamo tutte concentrate sul nostro cervello, il nostro cuore, la nostra pancia, e le nostre pareti ospedaliere.
Io dormicchiavo, perchè il tempo intanto passava.
Poi l'agocanula, la bella sensazione dell'ago che entra.
Passa un'ora.
Poi l'ovulo. L'ovulo per dilatare l'utero.

"Una volta inserito, non si può più tornare indietro, dovete essere sicure"

Io non la volevo, quella specie di supposta. Invece me ne sono stata zitta a guardare il soffitto mentre già allargavo le gambe.
Un'altra ora. Perchè deve fare effetto. Intanto ci hanno fatto vestire di tutto verde, e noi lo facevamo molto lentamente, per far passare il tempo. Le altre si lamentavano per l'agocanula, ma era esclusivamente per far passare il tempo.
Avevo sonno, avevo una sensazione strana addosso. Quel silenzio, quella concentrazione. Quei minuti di meditazione, come a voler dargli un significato, a voler farci cogliere la gravità della situazione.

La prima sono stata io. Mi hanno chiamato per cognome, mi hanno trasportato su una barella al piano di sotto. Un viaggio lunghissimo. E' sempre strano stare in barella. Il mondo era sparito, c'ero solo io che viaggiavo fra i corridoi, mentre sentivo che il momento si avvicinava fisicamente. I miei passi verso...

Una stanza di due metri quadri. Mi hanno chiusa lì. Siediti, hanno detto, che dobbiamo finire con l'altra.
Una stanza vuota, una sedia, un tavolo di metallo.
Mi sono portata le mani e lo sguardo alla pancia. La accarezzavo delicatamente. L'ho salutat, gli ho detto che mi dispiaceva veramente tanto, che ero stata una stronza ad averlo concepito,  gli ho chiesto scusa supplicandolo di non condannarmi per l'eternità. Gli ho detto addio. Il calore della mia mano che per l'ultima volta sarebbe arrivato fino a lui.
Addio.

Poi l'anestesista. Le solite domande.
Poi finalmente mi fanno sdraiare, mi fanno posizionare la cambe, collegano l'agocanula a qualcosa...
"Ti chiami Arianna eh? E dov'è il tuo filo?"
E io giuro, che prima di addormentarmi, prima di cercare di rispondermi, avevo capito 'figlio'.
Dov'è mio figlio.

E' successo qualcosa. Qualcosa che non ho capito bene. Dicono sia normale avere delle reazioni strane dopo l'anestesia. Quando mi hanno svegliato per spostarmi nel letto mi sono ritrovata già che singhiozzavo e mi lamentavo. Piangevo senza lacrime. Poi sono cominciate ad uscire. E piangevo e piangevo, nel mio letto, rannicchiata. Il dolore alla pancia, ma del dolore fisico non me ne fregava un cazzo, io piangevo e non sapevo perchè. Urlavo, le infermiere mi toccavano per tranquillizzarmi, o forse per prendermi il braccio per darmi l'antibiotico, ma io mi divincolavo, non volevo più muovermi. Il braccio me l'hanno fatto stendere con la forza. Ma io non sapevo, non me ne rendevo conto. Ero lì e non ero lì. Urlavo e mi lamentavo e non me ne fregava un cazzo di niente e di nessuno. C'era dolore, tanto dolore e tanta rabbia. Li ho tirati tutti fuori, per quaranta minuti. Ho tirato fuori agglomerati di tristezza, ho buttato talmente tante cose fuori che dentro mi sentivo piacevolmente vuota.
Intanto quella dopo di me aveva già fatto in tempo ad andare e tornare.
"Oh, ci hai fatto piangere a tutte, ci sono quelle in corridoio del secondo turno che si stanno agitando". Scusate, scusate. Scusate se non me ne frega un cazzo.
Mi sono ritrovata con una coperta addosso. "L'hai detto tu, che avevi freddo, te l'hanno data le infermiere".

Occhei. Perfetto. Avevo mandato a fanculo tutto. Ora stavo meglio. Le altre parlavano di dolori alla pancia incredibili, tanto da farsi fare una tachipirina endovena.
Le infermiere si sono avvicinate a me preoccupate. "Allora, va meglio?"
"Certo che va meglio. Quando posso uscire?"
"Prova a sederti, fra cinque minuti fatti una paseggiata verso il bagno e vedi come stai".
Mi sono seduta e stavo bene, mi sono messa subito in piedi. Sono andata in bagno, ho messo l'assorbente. C'era sangue ovunque.
Le altre accusavano dolori inenarrabili alla pancia. Io non sentivo più nulla, in nessun senso. Era come se non fosse accaduto niente. Sono uscita dal bagno che ero uno splendore, sorridevo a quelle due povere derelitte.

Una volta vestita mi hanno infilato in una sala. Una giovane dottoressa mi prescriveva un farmaco post aborto, e poi mi cercava di convincere a prendere ottocento ricette di contraccettivi.
Ma io la pillola non la prenderò mai.
E i cerotti nemmeno.
E la spirale non è sicura al cento per cento e la sconsigliano alle giovani.
Ma lei non mi lasciava andare. Non m'avrebbe lasciato andare in giro a scoparmi mezzo mondo, come fossi l'ultima delle troie di borgata, senza le mie preziose ricettine della nonna.
L'anello.
Sì, occhei l'anello. Me l'ha prescritto per tre mesi. Mi ha spiegato tutti i processi.
Sì. Molto interessante.
Non l'ho mai comprato.

L'ultima cosa che mi è entrata d'entro è stata una specie di aspiratore. L'ultima cosa che mi è entrata dentro mi ha levato il mio futuro e incasinatissimo figlio. La penultima me l'ha donato.
Un anello... Un anello è un insulto.
Un insulto.

Sono uscita da lì con la pancia vuota. E' stato strano, stranissimo. Ho pianto, ho riso.
Non riesco più ad essere triste. Ho eliminato tutto, come faccio sempre con le cose dolorose.
Me l'ha detto la terapeuta. Tu hai dei buchi nella memoria, da quando sei piccola. Tu cancelli cose, non importa se è accaduto ieri, tu domani non te ne ricorderai. Lo fai per difenderti. Ma non è il modo giusto.

Lo so che non è il modo giusto, ma per ora è l'unico modo che ho.
Dov'è mio figlio?
Non lo so, l'ho dimenticato.