sabato 30 giugno 2012

La Notte.

Esiste una notte. Un tipo di notte speciale. Qualcosa che avverti nell'aria, un respiro tranquillo ed assordante. Una luna sempre più grande e sempre più gialla. E' esistita questa notte, una notte nella quale io non c'ero più. Una notte che mi chiamava e mi diceva che era lei, che era lei la prescelta.
Il buio, e il mio volare via in macchina, per le strade di Roma. Sapevo che era giusto, sapevo di dover andare. Il Requiem di Mozart assordante e le cento sigarette.
Una notte in cui sono partita. Una notte dentro la quale c'era un appuntamento, e un parcheggiare, e un infilarmi in un'altra macchina. Una passeggera col vento in faccia.
Le strade nere, gli alberi che la stringevano tutt'intorno, i fari spenti per qualche secondo. Verso Fiumicino. Mi affaccio e mangio l'aria boccheggiando, e mi faccio sporcare i capelli dal vento e dall'aria fresca. C'erano i Sigur Ròs, e io portavo fuori la mano, giocavo a braccio di ferro con la velocità.
Il parcheggio gigantesco e desolato. Il primo parcheggio nel quale il branco di cani randagi venne avvistato. Ma via, via subito da lì.
Via, verso i banchi di nebbia. "La nebbia?". Sì, ma forse non è nebbia, forse è altro. Ma ci corriamo attraverso.

Porto. Siamo in Portogallo. Chiudo gli occhi. Sì, sicuramente siamo arrivati in Portogallo.
La notte che mi porta l'odore del pesce e delle barche. Arrampicarsi su una scogliera come fosse una montagna, e poi il mare calmo, scuro come il cielo. Nessuna linea di confine. Nessun orizzonte, nessun limite, solo piccoli riflessi di stelle. Un cielo sottosopra e sottovuoto. Sotto. Sotto, il vuoto.
Credo che stanotte penserai di amarmi. Lo gridavano tutte le cose intorno, mentre io ero silenziosa.
Il tempo di una sigaretta, cinque minuti. E poi via, via, che è ora di andare ancora più lontano. Io lo seguivo come fosse stato una guida esperta. Lo seguivo con degli occhi che erano i miei per la prima volta.
Un centro commerciale enorme, una città desolata e vuota. Mi sembrava di vedere migliaia e migliaia di file di cemento. Le città fantasma, le chiama.

Un altro parcheggio. Quello dei lupi. Io non riesco più a parlare. Non riesco più a dire cose sensate. Comincio un discorso, ma poi non so cosa voglio, da quel discorso. Avevo una testa confusa e leggera, una lingua che non conosceva linguaggi, un pensiero che non sapeva più esprimersi. Un'anima che stava uscendo fuori dal mio corpo, si stava unendo al resto, al buio, al cemento, alla solitudine, a lui. Ero un'anima, e le anime non comunicano come comunichiamo noi. Non posso più dire, non posso più descrivere.
Una stradina che si infilava in mezzo ai boschi. Era andato lì, il branco. Un branco con dei gatti, e un lupo nero. Me lo sussurrava all'orecchio, e io guardavo quella curva, e quell'albero, e li vedevo lì, e vedevo lui lì, distante, vicino a loro. Vedevo cose, vedevo scene. Vedevo le sue parole davanti a me.

Il non mondo. Un treno unicamente per due. Ma tu, tu devi andare, e io sono contento che lo vivrai un po', il vero mondo. C'è sempre tempo per correre sui binari. E a me sembra di tradire qualcosa, ma poi mi dico che come in tutte le cose che mi appassionano, ho bisogno di farle e rifarle, di sbranarle, spolparle fino all'ultimo, per poi liberarmene. Per rimanere nauseata, e lasciare tutto, e finalmente essere pronta. Mi dico questo. Ora ho bisogno del mondo. Ho bisogno di essere là, per poter lasciarlo.

Un viaggio di ritorno lungo, lunghissimo. L'estasi della corsa, mentre due calde mani si tengono strette. Calde, così calde. La libertà della corsa, mentre le mani diventano tre, e una rinfresca la sua. Quella dell'aria e delle gare a braccio di ferro col vento. Serrate, come a voler trasferire brividi.

Una casa. Lui prende in giro i suoi testi, e anch'io prendo in giro i suoi testi, e ridiamo, e io ogni tanto, quand'è così bello e puro lo riporto al silenzio con un bacio. Perchè certe volte c'è una piccola scintilla di pura felicità, e la felicità diventa reale solo se condivisa. I suoi testi io li amo.
I baci dell'addio. Dovevo andare, sì.
E' difficile. Un mese. Un mese in cui potrebbero esserci dei parigini o delle fan. Ma va bene, va tutto bene. Si ritorna, come si è sempre fatto. E ci si allontana, come si è sempre fatto. Non è un problema, perchè noi non siamo reali. Non possiamo, ora. Ora no. Ci farà bene, andrà tutto bene.

Perchè delle notti come questa ci chiameranno e ci riporteranno nello stesso luogo. Un luogo in cui non c'è nessuno.

E' così difficile. Così semplice. Gli uccelli cantano. E' l'alba.

Ancora il Requiem di Mozart. Roma grigia e brillante di freschezza. La luce opaca ma vivace, una luce di speranza, che mi fa stare bene. Pensavo a quello che mi era stato regalato in quelle ore. Pensavo a questo come all'ultimo regalo. E l'addio non c'è più. Il Tevere argentato su via del porto fluviale. Il viaggio in solitaria più bello della mia vita. Un vero addio, di quelli che non hanno rimpianti nè rimorsi. Perchè non c'è un futuro, non c'è un passato. Semplicemente c'è sempre stato e sarà sempre così. Sarà un'alba, e poi un giorno, un tramonto, una notte. Ci sarà la luna, come c'è sempre stata. Io non ci sono più, in nessun luogo. Noi non ci saremo più, in questo mondo. Com'era scritto, come sapevamo. Un addio che mi dice che si sta avvicinando un tempo. Non dice altro, non spiega. Immagino un incontro, e qualcosa che mi dirà "E' tempo", ancora una volta senza spiegare altro. E finalmente capiremo.



Ricorda. Io non ti amo.
No, nemmeno io ti amo. Noi non ci amiamo.
Voglio che tu mi senta, stanotte. Voglio le tue mani sul mio cuore. Voglio che te lo ricordi.

La notte. Questa notte, ogni notte. Ogni cosa, nessuna cosa. Per sempre.

venerdì 29 giugno 2012

Ricette di felicità.

Ecco. Capita che poi succedono ottocentomila cose fantastiche, in capitale francese, e ora come faccio? Mica posso scriverle tutte. Sono in crisi.

Mh. E' un problema, sul serio. Vorrei raccontare dei cimiteri, dei miei flirt coi camerieri, dei balli con sconosciuti e sconosciute alla Fete de la musique fino alla mattina vagando da un concerto ad un altro, da un quartiere all'altro, sola, e delle mie risate e al mio urlare e dire al tipo random di fianco a me 'Ils sont formidables, n'est-ce pas?', del sole che non voleva mai tramontare se non verso le 11 di sera, della brasiliana di 48 anni con la quale dopo il test alla Sorbonne mi sono ubriacata e mi sono messa a cantare Je ne regrette rien in mezzo alla strada, degli idioti che, al contrario di Roma, che qui ti dicono 'ssssssciao bela!', ti passano accanto e ti sussurrano all'orecchio 'T'es très jolie ce soir', che dici vaffanculo, anche il più becero qui è pieno di romanticismo, del tipo che suonava il pianoforte in mezzo al ponte dietro Notre Dame, della mostra di Anri Sala, della pazzia che avverti nell'aria, delle immagini che non troverò mai da nessun'altra parte, della vitalità, delle baguette mangiate ovunque, per strada, correndo, in metro, in macchina, sempre sempre sempre, dei pali colorati di Montmartre, del freddo che c'era, della sensazione di più completa libertà, la sensazione di non sentirmi mai sola, perchè la gente è lì con te e la senti sul serio, della vecchietta che ascoltando un chitarrista per strada s'è messa a cantare ed entrambi sorridevano, quanto sorridevano, dell'uomo al pianoforte, uno zingaro con la chitarra che si ferma, scende dalla bici e comincia a battere il tempo di una Marcia Turca jazzata colpendo la canna con l'anello d'oro, e dietro di lui cinque francesi vestiti bene e uno con una cravatta sugli occhi che ogni volta doveva indovinare il pezzo suonato, per scommessa con gli amici, e del bar di Amèlie, quella de Il favoloso mondo di Amèlie, che sì, ho fatto la turisticata e mi sono seduta proprio dove lei sta quando lui entra nel bar e la cerca senza conoscere il suo viso, e allora si siede, ordina un caffè, e lei gli sta dietro, mentre scrive il menù del giorno su un vetro, al contrario, e guarda la sua nuca, e le sue dita che raccolgono i granelli di zucchero sparsi sul tavolo, e io ero seduta proprio lì, cavolo, e mi sono sentita vibrare quella scena attraverso, e di quando sono passata davanti al Moulin Rouge e ho giurato a me stessa che se a fine viaggio mi avanzano 175 euro vado a cena là, mi prendo lo champagne e mi guardo lo spettacolo di can-can, e le case, anche in periferia, che hanno sempre quell'architettura sopraffina, e la stanza studentesca nella quale abiterò, che sta nella città universitaria, che sembra un college americano ma molto molto più bello, e dei miei innamoramenti giornalieri per uomini e donne bellissime, e le mie chiacchierate col barbone vicino casa, che quando c'era Inghilterra Italia tifava Italia, e delle mie chiacchierate con le turiste americane, i bigliettini che davo con via e nome del posto più buono in cui ho mangiato, e dei film la sera al cinema, e della seconda volta che mi hanno fatto pure lo sconto perchè ho mostrato la mia tessera d'iscrizione alla Sorbona e io mi sentivo molto orgogliosa ed emozionata. E di tante tante tante altre cose.

Non rende. Ciò che ho scritto non rende. Ho provato con questo flusso di coscienza che m'hanno ispirato un paio di persone qui, ma non rende, dovrei scrivere di ogni cosa molto accuratamente.
L'atmosfera è quella della follia, della passione, che non viene presa in giro nè denigrata, ma apprezzata ed incoraggiata, tanto che un ragazzino a mezzanotte mentre aspetta l'autobus seduto alla fermata può permettersi di accendere l'ipod e suonare e cantare alla chitarra Under My Umbrella senza che la gente gli tiri un secchio d'acqua. Anzi, quelli che passavano gli sorridevano, e io e un altro tipo ci siamo messi a cantare con lui. Dopodichè ce ne siamo andati ognuno per la sua strada. Funziona così. Condividere attimi, episodi, che alla fine fa parte di ciò che ho sempre voluto dalla vita e dalle vite degli altri. Delle istantanee di incroci

A Parigi vedi tanti pazzi per le strade. Funziona così. Dopo un po' ti liberi completamente.
Che poi P ha tante facce, ognuno ci vede quello che vuole. La città del romanticismo, del mangiar bene, dei grandi monumenti. Io ci vedo la Parigi che ancora ama l'arte. Ma più che amare l'arte, ama ancora farla. E questo mi piace tantissimo. Io ero contenta, ero contenta di stare sul mondo. La vita mi sembrava una cosa bellissima.

Poi sono tornata a Roma e m'è venuto lo scompenso.

E poi ho lasciato K (quello cattivo). Lui ha pianto e io mi dicevo 'cazzo, sei una frignona, stai sempre a piangere, e ora possibile che non ti esca nemmeno una lacrima? Almeno levati quel cazzo di sorrisino di liberazione dalla faccia. Vabbè, abbraccialo, così non ti vede.

"Non ti dimenticherò mai. Io comunque per te ci sono sempre, perchè sei la persona che mi ha dato di più in tutta la mia vita. E scusa per tutto il male che ti ho fatto. "
"Mannò, ma quale male, figurati. Tiè, prenditi un fazzoletto."

Piano piano, abbandono Roma. Mi sto preparando. E tutto mi sembra ottimo.
Ottimo, come lo Chardonnay che ho bevuto ieri notte in balcone, con tante sigarette e tanta nostalgia.

[Il tipo della foto è Steve Villa-Massone, il tipo che ho ascoltato per un'ora sopra la Senna, e al quale ho comprato il cd. E' un genio del male.]

martedì 19 giugno 2012

Pit stop.

E niente.
Non è che ora che mi manca solo l'ultima tappa ed ho a disposizione solo un giorno, posso mettermi a correre come una forsennata perchè sennò sono in ritardo, non rispetto i tempi e devo scrivere scrivere scrivere.
Quindi mi fermo. Mi fermo coi miei ultimi cento metri di stato interessante, mi fermo con i miei amici, la mia gatta, la mia casa. Mi fermo con K e lo stress psicologico che ne comporta. Mi fermo con la mia vita. Ne riprendo un'altra, parallela.
Quella che ho a Parigi. Quella che ho sempre avuto in Francia, dall'eta di dodici anni.
Non che io sia andata a Parigi così spesso, per intenderci. Ma quando sono lì io mi trasformo.
Parigi l'ho vista tutta gialla, tutta blu, fredda, calda, tremante e pestifera. Coi colpi di sole dei tetti delle case all'alba, tinti dei raggi della mattina. Anche struccata, molte volte, ed è bella lo stesso. Ubriaca di sonno col suo Bordeaux del quartiere latino. Colma di mandorle e sangue del suo quartiere ebraico. La Parigi dell'Ile-de-France, la Parigi delle banlieues. L'ho vista cantare per le strade, piangere sulla Senna. L'ho vista sempre innamorata, innamorata di me, e io innamorata di lei.
A Parigi non ci vivrei tutta la vita, no. Parigi non è la mia vita. Parigi è la mia migliore amica. Ecco, sì. Parigi è come F e G.

F, G, e P. Esattamente. Parigi mi solleva l'anima, anche quando sto nella merda più totale. Durante la depressione ci sono state loro a dirmi "Non me ne frega un cazzo, ora esci, anche se sei uno schifo e puzzi come una zingara, anche se stiamo sotto casa, che ci vediamo." Parigi mesi dopo non m'ha detto così, però mi ha portato in giro per le sue vie, proprio come loro facevano con le parole e gli abbracci.

Parigi è un uomo sporco di pittura bianca seduto, stanco, con un mazzo di rose un po' consumate strette nella mano. Pargi è aria buona, è roba buona. E' la poesia dei poeti, il quadro dei pittori, l'amore degli amanti.

Sto via una settimana. Il tempo dei pagamenti per il corso estivo che farò alla Sorbonne, il tempo per controllare il mio alloggio, il tempo per una birra in riva alla Senna e un respiro di vera libertà.
Andrò da sola, ma spero che non finisca come Londra, anche se la paura c'è, ma insomma, lei è la mia migliore amica, Londra solo una conoscente un po' distratta.
Poi tornerò, per un'altra settimana. Probabilmente ricomincerò con la corsa. Finirò questo lungo lungo excursus sul mio aborto, che ora come ora un po' non me la sento di continuare, ora che manca così poco.

Ma sarà una corsa diversa. Sarà una corsa per liberarmi da questo peso. Quei pochi centimetri dall'arrivo. Dall'arrivo della mia storia con K, che concluderò una volta tornata.

Non so se arriverò prima, seconda od ultima. Non fa niente. L'importante è che finisca. L'importante è che abbia concluso un ciclo, per una volta. Che chiuda i conti, senza lasciare dubbi, speranze, malintesi. Senza vergogne, senza cose non dette, senza codardia.

Così ricomincerò. Il mio mese a Parigi, di studio. L'Inghilterra più tardi. E infine Trieste.
Concluderò i miei vent'anni romani. Roma madre, Roma sorella, Roma bastarda e desolata. La Roma del dolore e dell'inettitudine, la Roma saggia e consigliera che mi ha sempre sussurrato di volare lontano, che i sanpietrini non fanno per me, che ladura e rozza pietra non è mai stato affar mio. Tu, tu sei sempre stata uno spirito libero. Tu eri nell'aria, come i tuoi pensieri.
Roma madre di borgata, che per la bambina spera un futuro di successo, con un bel lavoro distinto e un uomo che è un gran signore, e non la picchi come hanno fatto con lei. Roma che un giorno potrà dire "vedete? Quella è mia figlia. Era un po' scontrosa e non andavamo tanto d'accordo, però io non l'ho mai voluta trattenere".

Roma, che finalmente un giorno mi sentirò senza radici, senza colla, senza catene che mi legano a te.
E così potrò dire "Ho avuto la migliore madre del mondo".

lunedì 18 giugno 2012

Gli universi paralleli di uno stato interessante.

Era il mio turno. E sinceramente non me ne fregava un cazzo. Ripensavo a lei e alla sua corsa.
Sono entrata, mi sono sdraiata, mi hanno cosparso di gel, mi hanno passato quel coso che ha tanto la forma di un Silk Epil.
E non si vedeva niente. Almeno, lei non ci vedeva niente, mentre io il monitor non potevo guardarlo. E quasi mi scoppiava da ridere.

"Eh, perchè questo coso non è propriamente del macchinario, per questo si vede male. E se si vede male a te, figlia mia, vuol dire che è proprio andato."
Beh, grazie del complimento.
Ho pensato che sarebbe stato uno sballo essere nelle stesse condizioni di Greta. Ma no. I 14 anni non mentivano, ed ero tranquilla.
"Vabbè, proviamo con l'intravaginale". Vaffanculo. Non sono più tanto tranquilla, quando si tratta di 'penetrazione'.

Ma poi alla fine c'era. L'ha trovato.
"Guardi, io ho un prolasso mitralico, mi hanno detto che dovrei prendere degli antibiotici in caso di interventi..."
"Sì, sì, Augmentin. Te lo prescrivo."

E poi. E poi mi ha fatto firmare altri fogli. E in alto, a destra, c'era spillata una piccola foto. Me ne sono accorta perchè qando ho preso il modulo ci sono passata sopra col dito. E l'ho visto.
Una piccola luce bianca in mezzo al nero. Piccole striature grigiastre tutte intorno. Sembrava una galassia. Il mio universo uterino.
Ancora una volta quella sensazione primordiale si faceva sentire. E io non smettevo di guardarla. Non sono molto veloce mentalmente, io, ma in quell'attimo sì. Un istinto mi ha detto "guardala bene, quella foto. E fissala, perchè altrimenti un po' lo rimpiangerai". E così ho aspettato prima di firmare. E dopo averlo fatto, ho avuto un altro istinto. Quello di prendermi il modulo. Quello di prendermi quella foto, quel ricordo. La dottoressa me l'ha tirato via.
No. Non mi apparteneva. E quella è stata la prima e l'ultima volta che ho visto mio figlio. Il mio piccolo buco di luce in miniatura.

Uscita dalla stanza ho salutato le ultime rimaste con un 'in bocca al lupo'. Si usava così, avevo scoperto.
E non ho più pensato a quella foto, a quell'immagine. Io pensavo a Greta. E pensavo a me, quando la ginecologa mi aveva detto che la gravidanza non l'avrei comunque portata a termine, che sarebbe stato difficile. A quando dopo le sue parole sono stata malissimo. Perchè non c'entra l'aver perso un bambino. E' un'altra cosa, quella che ti viene in mente. Non saprei spiegarla bene. E' come se fosse la perdita di una parte di te. Di una tua sicurezza, di un'accettazione, di un'esserti piegata alla situazione, mentre la situazione intanto scompariva. Non so, non so spiegarlo.

Le gambe andavano da sole. Sono uscita dalla palazzina, ho cercato il pronto soccorso. Sono entrata. L'ho vista appoggiata in avanti con i gomiti sullo sportello, che parlava. Una maglia a collo alto, verde acqua. Le sono andata dietro, ho aspettato qualche secondo prima di farmi vedere. Io Greta non la conoscevo. Per un attimo ho avuto paura di essere inappropriata. "Questa inclinazione l'ho presa da mia madre, decisamente".
Poi l'ho guardata portarsi la mano all'occhio, come per asciugare una lacrima. No, non ero inappropriata. Perchè sapevo cosa sentiva.
Le ho toccato la schiena delicatamente, e ho pronunciato le stesse parole che mi aveva detto lei, ore fa.

"Ehi, tutto bene?"
Gli occhi di nuovo brillanti, ma perchè pieni di lacrime. E' scoppiata. L'ho stretta con un braccio, le ho appoggiato la testa sulla spalla. Le ho detto di non preoccuparsi, che va bene se piange. Che io lo so che significa. Che l'avevo visto, che stava male, per questo ero venuta. Non preoccuparti, capito? Non preoccuparti, sssh.

Un'infermiera le ha dato un braccialetto, e ci ha portate al primo piano. Ho atteso un po' con lei, con lei che diceva che non è per niente, ma è perchè non se l'aspettava. Vuota. Vuota, diceva, ripeteva. Non è possibile. Ripeteva anche questo.
Tra poco me ne sarei dovuta andare, G mi sarebbe venuta a prendere. Non volevo lasciarla sola, così ho pensato che almeno avrei potuto lasciarla a qualcun altro.
Per esempio alla ragazza incinta davanti a noi.

Così le ho chiesto un'informazione futile, e poi in queste situazioni viene tutto da sé.
"Anch'io ho avuto lo stesso problema. Camera gestazionale vuota. Non ti preoccupare, accade, succede. Può essere che tu abbia avuto delle perdite e non te ne sia nemmeno accorta. Anche perchè non è detto che ci debba essere del sangue".
Mi si è stretto lo stomaco, ma mi sono sforzata di non darlo a vedere. La recita. Camerata.

Greta è una chiacchierona, c'è voluto poco. E io mi sentivo meglio per lei, per non doverla lasciare proprio così sola. Così, quando me ne sono dovuta andare, lei si è commossa un'altra volta.
"Grazie, davvero."
"Ehi, lo sai, no? Ce lo siamo dette prima. Se sopravviviamo al 2012 niente ci ammazzerà più. Capito? E noi sopravviviamo. Porca puttana, se sopravviviamo." Consolare le persone mi riesce bene. Riesco a dire cose con una tale sicurezza, cose che a me stessa non direi mai.
Mi ha preso, mi ha abbracciato. Mi ha stretto forte, e sul serio, con quelle spalle possenti. Ho sentito un moto d'affetto. Quell'affetto episodico, che non conta da quanto conosci la persona. E' perchè c'è quella situazione e in quella situazione ci siamo accompagnate. Un affetto che mi ha fatto chiedere "Chissà, magari il numero glielo chiedo, per sapere come sta".
Un affetto che poi ha risposto che no, non ce n'è bisogno.

Me ne sono andata con un altro in bocca al lupo in bocca, che in realtà era un addio.
Non ci siamo mai presentate, non ci siamo mai dette il nome. Il suo lo so perchè l'ho sentito da un'infermiera che la chiamava.
Ci siamo viste quel giorno e non ci vedremo mai più. Abbiamo condiviso poche ore, abbiamo condiviso una grande esperienza, e mai nient'altro.
E sapevo che andava bene così. Che tutto era perfetto, come doveva andare.

Mi chiedo ogni tanto come sia andata a finire, per lei. Mi chiedo se poi quel giovedì c'è andata, a fare l'intervento. Mi chiedo se sta bene, ora. Mi chiedo se è davvero così forte, e se sarà in grado di affrontare tutto questo col suo ragazzo.
Ogni tanto invento, cerco di rispondermi. Tutto al peggio, tutto al meglio. Certe volte a metà.

Non lo so, come sta.
Ma so che Greta la Compagna io non la dimentico.

domenica 17 giugno 2012

Le guerre di uno stato interessante.

15 minuti a donna.
Entravi in una stanza, compilavano un modulo, ti facevano uscire. Poi aspettavi che ti chiamassero, poi riempivano 6 fialette del tuo sangue, poi ti attaccavano fili per l'elettrocardiogramma. Che poi l'elettrocardiogramma non andava mai bene, e quindi te lo rifacevano due o tre volte, e si perdeva tempo.
Così ci dicevano, quelle che erano già entrate.
15 minuti a donna, contavamo. 15 minuti a donna per 20 donne. L'ultima avrebbe aspettato 5 ore. Sì.
E la dottoressa dell'ecografia arrivava alle 9.30, quindi si doveva aspettare comunque, anche chi aveva fatto tutto per prima.

Il bello del Pertini è che è in periferia. E al Pertini ci trovi donne di periferia. E io amo stare vicino a donne di periferia. Mi rallegrano. Che poi, la periferia romana, figuriamoci. Le coatte, sì.
Ma il bello è che le uniche vere coatte erano quelle che lì avevano trent'anni. "Fantastiche", pensavo. "Semplicemente fantastiche".

Perchè la scena era questa. Ogni tanto qualcuna cadeva. Sì. In quel corridoio ci sono stati tre svenimenti e due corse verso il bagno a vomitare bile.
Mi veniva in mente la guerra, e la trincea. Le cadute sotto le bombe dell'attesa. Immaginavo la scritta "0 Killed".
Una romena un po' in sovrappeso, con le treccine bionde, che si aggrappa alla barella e si lascia andare. 1 Killed.
Una riccia vestita di nero che urla Dov'è il bagno dov'è il bagno. 2 Killed.
Una ragazza pallida con la tuta, gli occhiali e 39 di febbre che appena si alza ricade sulla sedia priva di coscienza. 3 Killed.
I gemiti di un'altra chiusa in bagno. Il suono della sua trachea, i suoi sputi. 4 Killed.
Una giovane donna vestita con un impermeabile Burbery e i tacchi, che quasi sbatte la testa. Le tengono su le gambe per 5 minuti. 5 Killed.

L'angoscia m'avrebbe mangiato, e all'inizio lo faceva. Ma poi, "Semplicemente fantastiche". Perchè io ci sto bene, con queste persone. L'autentica (ed in quel caso volutissima) superficialità mi obbliga in qualche modo a smussare il mio terribile lato tragico. E quindi pensavo "che bello", quando durante queste scene, loro sdrammatizzavano "Eccaaallà. N'artra. Tocca aprì su un giro de scommesse. A prossima?". E quando volevano essere le prime perchè loro avevano preso solo mezza giornata di permesso, e che era un a schifezza, sta cosa di aspettare a digiuno. E quando facevano battutacce fuoriluogo. E quando una ha detto che già ce ne ha due, il terzo col cazzo che se lo tiene. Quello m'ha messo un po' di tristezza, ma lei lo diceva così, e così c'ha fatto sorridere.

E quando una ha detto "Cioèèèè...Fila 'a panza che sto a mette su, sto a magnà come na scrofa".
E per un attimo tutte, e dico tutte, abbiamo abbassato lo sguardo verso i nostri ventri, ci siamo toccate la pancia, ci siamo guardate fra di noi in silenzio e siamo scoppiate a ridere. Una risata fragorosa, che i medici c'hanno zittite. Quella risata mi è entrata dentro. Non l'avevo mai provata prima.
La comicità nella tragicità. Mi piaceva, mi faceva sentire come se stessimo in una sorta di recita. Tutte noi sapevamo che era finzione, che ognuna avrebbe fatto i conti con la propria realtà, ma in fondo era giusto così, in fondo recitare è arte. E anche tenerci su, farci stare bene fra noi povere derelitte, è un'arte. Io non ci sarei riuscita, se non ci fossero state le tipe di periferia. Camerate.

E così eccola lì, Greta. E anche altre della mia età, più o meno, avevamo fatto un gruppetto, per passare quelle inutili ore. Ma io e Greta ci guardavamo negli occhi e ci scambiavamo storie. Solo noi lo facevamo sul serio.
Greta è un'altra tipo di ragazza che mi piace. Un maschiaccio, un'ironica di natura, una roccia di natura. Una che  con tono serio "Io l'intervento lo faccio giovedì, speriamo di non avere casini perchè io domenica c'ho la partita di pallanuoto". Una con due spalle da aver paura, e dei capelli crespi crespi e una faccia da cavallo e degli occhi brillanti.
Greta stava con un albanese, e non l'ha fatto venire perchè diceva che poi si rompeva, e insomma, voleva risparmiargliela. Non lo sapeva nessuno, solo quelle della squadra di pallanuoto. Sua madre gliel'avrebbe fatto tenere.
Io sto con un montenegrino.
"Eh, ahaha, allora non c'è bisogno che ti dica niente. Lo sai come sono fatti quelli dell'est quando si tratta di "passionalità", eeeeeh" Occhiolini ammiccanti a non finire. Ridevo, quanto ridevo. Anche quando abbiamo inventato una conversazione con quelle quattro parole straniere che sapevamo, lei in albanese e io in serbo.
"Mirëmëngjes". Buongiorno.
"јагода". Fragola.
"bushtër". Cagna.
"хвала". Grazie.
"Nuk kuptoj".  Non capisco.
"Волим те". Ti amo.
"Të dua". Ti amo.

Alle 12 eravamo riuscite a fare questa madonna di visita. A me piacciono i prelievi. Stavo lì a guardarmelo per bene, quell'ago, quando mi si conficcava in vena. Mi è rimasta questa cosa da quand'ero bambina. All'inizio avevo paura. Così ho pensato che la paura l'affronti meglio se guardi per bene. Perchè se ti volti dall'altra parte ti concentri solo sul dolore, non ti distrai abbastanza. Invece la siringa ha un suo fascino, e mentre stai lì affascinata da questa vena sporgente e mezza bucata, quel piccolo dolore nemmeno lo senti. Così ora è diventata una cosa che mi piace.

Siamo andate a mangiare al bar. Un cornetto alla nutella e una bomba. E avevo ancora una fottuta fame. Sì. Ai limiti della fame chimica. Mi sono maledetta per non aver avuto con me le sigarette. Le abbiamo scroccate ad una della "comitiva delle ingravidate" che fumava in continuazione.

Siamo rientrate. Era l'ora dell'ecografia. Prima di me c'era lei, Greta. Che mi ha sorriso, ed è entrata.
5 minuti. 10 minuti. 15 minuti. 20 minuti.
Greta poi è uscita. I suoi occhi non avevano più luce, però. La guardavo parlare con una dottoressa. Ho origliato.
"Vai al pronto soccorso e chiedi un'altra visita. Sembra che tu sia vuota. La camera gestazionale c'è, ma è vuota. Vai, e torna qui che dobbiamo sapere tutto prima di giovedì, altrimenti l'intervento non lo puoi fare".

No, i suoi occhi erano completamente spenti, ora. Mi ha fatto ciao, con i suoi occhi completamente spenti e senza sguardo, ed è corsa via.

"E' una guerra" ho pensato.
"E' una fottuta guerra".

venerdì 15 giugno 2012

Le perpetue nausee di uno stato interessante.

[Eh. Mi sono fermata. Forse perchè prima qui ci scrivevo la mattina, ora ho cominciato a scriverci di notte. Ed è un male, perchè a me le notti d'estate mi uccidono, da sempre.
Insomma, mi sto sforzando. E' stata una settimana confusa. Una settimana che m'ha messo paura perchè ho scoperto di non riuscire a dormire se prima non mi stordisco un po'. Bere a casa alle quattro di mattina, svegliarsi e pensare che vorrei bere ancora, e poi essere invitata a casa della nonna buddista di un'amica di K che io quasi non conosco, e non pensare a nient'altro che alla bottiglia di vino sul tavolo. E alla fine scolarmela sperando che nessuno se ne accorgesse, e nonostante sapessi che poi avrei dovuto guidare. Mi fa incazzare perchè ora partirò, e non so cosa farò. Ho sempre pensato di avere abbastanza paura di certe cose. Che insomma sì, mi sono sempre imposta dei limiti. Ora ho paura di non riuscire ad avere abbastanza paura.]

Insomma. Alla fine mi sono ritrovata con questi due fogli in mano. Un appuntamento al Pertini il 21 maggio, uno il 29.
Il 21: Portare le urine, non mangiare, essere lì alle 7.40 di mattina. Analisi del sangue, elettrocardiogramma, ecografia.
Il 29: Non mangiare, non bere, non fumare dalla mezzanotte, essere lì alle 7.40 di mattina. Dilatazione utero, e poi intervento.

Non avrei mai potuto uscire di casa alle 7 di mattina senza destare sospetti. Ancora una volta mi sarei dovuta appoggiare alle mie amiche. Avremmo dormito da G.
A mia madre: "Sua madre non c'è, le facciamo compagnia."
A sua madre: "Arianna deve fare le analisi perchè è vegetariana ed è stata male e non vuole che la madre lo scopra, perchè se fanno schifo poi lei si incazza."

Quella sera volevo morire. Avevo la nausea, come sempre, come ce l'avevo da due settimane per tutto il giorno tutti i giorni, pure quando dormivo. Ma era peggio. Stavo talmente male da non essermi nemmeno portata le sigarette appresso, che tanto non mi sarebbero servite. E io fumo, eh. Eppure non riuscivo, non riuscivo nemmeno più a muovermi.

Da giorni avevo voglia di mangiare tonno, tonno e prosciutto. Era il mio corpo a dirmelo. Mi diceva che se avessi smesso, con questa puttanata dell'essere vegetariana, mi sarebbe passata la nausea. Ma io no, io sono precisa. Io ho preso la decisione due anni fa, e non ho mai sgarrato, nemmeno una volta. E non ho mai avuto la voglia di farlo, nemmeno quando qualcuno per scherzo mi metteva davanti agli occhi una bella bistecca. Mai un istinto carnivoro a dirmi che fosse la strada sbagliata.Nulla.
Ma ora era diverso. Mi sentivo come un malato che stava rifiutando la propria cura.

E così l'ho fatto. Ho aspettato che i miei uscissero, dopodichè mi sono fiondata su uno dei venti barattoloni di filetto di tonno. L'ho aperto, ne ho annusato l'aroma. Sembravo un animale. E l'ho divorato come un animale. Come se non mangiassi da secoli. Con le mani, con l'olio che mi sporcava i capelli. Poi ne ho aperto un altro.
E la nausea era sparita. Ovviamente mi sono odiata per questo.

Quella sera invece  me ne stavo solo lì, sdraiata a letto, rannicchiata dal dolore, mentre le altre di fianco a me ridacchiavano su alcuni video. Ci siamo addormentate tardi e abbiamo dormito male.
Ci siamo svegliate alle 6.45, siamo arrivate lì alle 7.45.

Palazzina B1, primo piano. Tutto era confuso, non si capiva mai dove andare. Ma una volta incrociata, non c'erano dubbi che quella fosse la sala d'aspetto giusta. Donne, ragazze. Glielo leggevi in faccia, che il posto era quello giusto. Solo un paio erano accompagnate dal ragazzo. Solo un paio, ed eravamo venti. Chissà perchè, mi sono chiesta. Chissà che storia c'è dietro. Chissà quant'è diversa dalla mia.
Poi ci hanno chiamato. Tutte dentro ad un corridoio. Un lungo corridoio bianco. Ho salutato G e F. Poi la porta s'è chiusa, ed eravamo solo noi.
Un corridoio di donne incinte.

Ovviamente io faccio i soliti casini.
"Riempite la provetta con le vostre urine".
Ovviamente a me mezzo barattolo s'era rovesciato. Tranquilli, mi conosco, l'avevo avvolto in una busta.
Quelle venti donne incinte m'hanno conosciuto con le bestemmie in bocca.

Dopo quei dieci minuti di efficienza da parte del reparto, più nulla. Un'ora è passata nel nulla.
Un'altra ora in piedi, di mattina, senza aver mangiato, e per di più gravida. La nausea mi stava divorando viva e nemmeno le altre sembravano sprizzare energia.  Ero pallida, gli occhi semi chiusi, la mano sullo stomaco come a volerlo calmare. Io già non ce la facevo più.

"Ehi, tutto bene?"
"Eh... vediamo il lato positivo. Almeno non ti sbratterò addosso, visto che ci tengono a digiuno."

Quel giorno ho conosciuto Greta. E Greta, io, non la scorderò mai.

lunedì 11 giugno 2012

Le dinamiche familiari di uno stato interessante.


Accade che io ho due genitori che mi hanno sempre amato tanto. Anche troppo. Accade che io non faccia in tempo ad esprimere un desiderio sottile, che loro lo realizzano. E accade anche che quando io mi sforzi di esprimere una mia volontà ponderata in mesi e mesi, loro non capiscano e la sminuiscano.
I miei mi amano troppo, tanto da farmi partire a 18 anni da sola per Londra, e a non battere ciglio quando dissi loro che l'hotel prenotato da Roma non mi apriva. Che era vuoto. "Cerca qualcos'altro", mi dissero. Io cercai qualcos'altro e la mia notte la risolsi ineccepibilmente.
I miei mi amano troppo, tanto da entrare nel panico un anno dopo, quando mi ritrovai persa per le strade di Bologna. Una notte l'avevo già risolta, ma ce ne volevano altre, e io giravo per hotel ed ostelli. "Ecco qui il numero per un loft. Ci ho già parlato, vi dovete solo incontrare". Quella volta la situazione la presero in mano loro, perchè io ero un'incompetente.
I miei mi amano talmente tanto da fornirmi ogni giorno messaggi contrastanti. Hai vent'anni e sei un'adulta intelligente, quindi ci fidiamo di te e delle tue scelte, hai vent'anni e ancora non sai un cazzo della vita, quindi te la risolviamo noi.

Solo dall'anno scorso ho cominciato a decifrare delle piccole verità. A tentoni, interpretando gesti e storie, perchè non ne potevo più di queste dinamiche. Non ne potevo più di non riuscire mai a capire cosa fossi per loro.
Solo ora si sono arresi. Solo ora, attraverso le mie torture, sono riuscita a strappar loro una confessione. "Siamo umani". E se si fossero arresi prima, probabilmente tutta la rabbia di questi anni che ci ha fatto andare alla deriva avrebbe avuto una spiegazione.

C'è che mio padre ha avuto una vita difficile. Il suo morì quando lui ne aveva 18, e la madre impazzì. Dovette imparare  a cavarsela da solo, e ancora oggi si porta dietro certe nevrosi. Mi incazzavo perchè non era possibile che lui entrasse in crisi ogni volta che qualche bolletta gli venivaa spostata, o che qualche ordine venisse modificato. Quando ogni volta che partivamo gli venisse l'ansia e dovessimo litigare per tutto il viaggio. Quando ogni sabato, tornando dalla spesa settimanale, portasse a casa più del dovuto. Due cantine, e due cantine piene di cibo. Stracolme di cibo. Pareti di cibo. Quando, in quei rari momenti nei quali mi sforzavo di farmi capire, di aprirgli il mio cuore, si riferisse solo alla materialità della situazione, rendendosi ai miei occhi un uomo di pietra, superficiale, arretrato, insensibile.
Ora invece è umano. E ora quando torna con 10 chili di pasta quando sulla lista solo uno ne era richiesto e poi si lamenta che la spesa gli viene a costare un occhio della testa, io un po' sorrido. Nevrosi. Eh.

C'è che mia madre ha avuto una vita difficile. Un fratello, il mio parente preferito, eroinomane, per dieci anni, e un padre con l'alzheimer per altri cinque. Mia madre ha sempre ascoltato i problemi di tutti. Mia madre ha sempre risolto i problemi di tutti. Anche delle mie amiche. Anche quando non gli era richiesto. E' fatta così. E io la odiavo, perchè non mi dava spazio, perchè ero sempre sorvegliata, anche se a distanza, anche se non parlavo perchè sapevo, sapevo che poi non avrei potuto respirare. L'adolescenza è stata tutto un gioco di inganni e tecniche e strategie, in qualsiasi ambito.

Mia madre sa tutto, sa sempre tutto, nonostante io inventi di tutto per eluderla.
Una volta sbagliò mira però. Una volta mi vide uscire la mattina e tornare dopo cinque minuti. Chiudermi in bagno, e restare là. Ero piccola, avevo paura, ed ero alle prese col primo test di gravidanza. Mi costa anche scriverlo perchè penso a chi legge. "Ah...E insomma non imparasti un cazzo?". No, imparai, ma imparare certe volte non ti evita i problemi.
E lei pensava che io mi stessi drogando. Mi strattonò per tutto il bagno. Urlò, cominciò a cercare ossessivamente una bustina, buttando tutto sotto sopra.
Ancora non lo capivo, perchè non sapevo. Ma i suoi occhi erano strani. Ora so che erano umani, erano gli occhi del passato, gli occhi che cercavano l'ennesima busta di eroina di mio zio, degli occhi che nonostante i tuoi "mamma, non è quello, sono cose mie, lascia stare, perchè devi sempre metterti in mezzo? E' meno grave di quello che pensi, non è quello, mamma...Mamma! Smettila! Ti giuro che non è quello!", lei ormai non ci credeva più. Perchè ai drogati non si deve credere mai.
Nonostante la sua pazzia, io non dissi nulla, non pensai che fosse meglio confessare piuttosto che farla soffrire così tanto. Perchè ero pazza anch'io. Mi ci aveva fatto diventare lei così, ed ero rabbiosa, e non volevo dargliela vinta per l'ennesima volta. Ma tanto lo scoprì ugualmente.

Ed è accaduto anche stavolta. Nonostante io avessi pianificato ogni cosa alla perfezione, lei lo sapeva.
Sono andata a prenderla alla stazione della metro di Rebibbia, giorni dopo l'incontro con M. Tornava dal lavoro, era stanca, mi diceva.
Poi "Senti...Accosta la macchina. Fermati". E io sapevo cosa significava.
"Arianna, dimmi cos'hai."
"Ma', niente, cos'ho?" con lo sguardo confuso. Ho recitato al meglio, sul serio.
"Allora te lo dico io. Oggi ti hanno vista al Policlinico" Al Policlinico non c'ero andata sul serio. Non capivo se fosse un bluff o una reale testimonianza di qualche collega rincoglionito.
"No, ma', sono uscita con G, siamo andate dall'estetista". Che era vero.
"Arianna, tu sei incinta"
"Senti, se dobbiamo cominciare con queste stronzate io non ci sto". E infatti ho acceso la macchina e sono ripartita. "Ma che cazzo dici?" La rabbia. La rabbia. Per l'ennesima volta lei voleva entrare. Per l'ennesima volta non riusciva a capire che dentro alla faccenda io non ce la volevo.
"Guardami negli occhi..." E io l'ho guardata, e le ho detto che no, non era così. Ma lei non ci crede mai, se non è quello che vuole sentirsi dire. E così ha cominciato coi suoi giochetti psicologici, quelli che cercano di irritarti e provocarti e di farti scoppiare, così non ci pensi e sbottando sputi fuori  la verità. Ma io li conosco da anni, non ci sono mai caduta, e mi fanno solo un gran male. E mi fanno chiudere ancora di più, e mi fanno sputare veleno.

"Capisco che tu il supporto psicologico ce l'abbia, ma tutta la prassi è difficile. Non potrai farcela da sola..." L'ennesimo tentativo di sminuirmi. Il tentativo di farmi tornare bambina. Tu hai bisogno di me. No, io non ho più bisogno di te.
"Ma', grazie, ma io non sono incinta. E anche se lo fossi, ho vent'anni, decido io cosa fare e come farlo."

"Ma ancora non l'hai capito? Basta! Basta! Non puoi entrare sempre in tutto, ma'. Levati dal cazzo, fatti una cazzo di vita, risolviti i tuoi fantasmi del passato, che ne hai bisogno cazzo. Ti presto la psicoterapeuta, vacci, che tu non puoi rovinarmi la vita così, non puoi infilarti in cose per le quali nessuno ti ha chiesto pareri. Io non ti ho chiesto niente, non ti chiederò mai niente, non voglio farlo. Levati dal cazzo, esci da sta macchina e vattene a casa, che sei sempre la solita stronza. Fatti una vita, sì. Fatti una cazzo di vita coi tuoi cazzo di problemi, che magari così la gente comincia a sopportarti".

Quanto ci sono stata male. E quanto ci sono stata bene. E quanto ha pianto mia madre.
Ma io mi sentivo leggera.
Scelgo io come affrontare il problema. Scelgo io se avere venti o dieci anni. Scelgo io con chi condividerlo, scelgo io chi fare entrare. Non tu, non tu mamma. Tu hai già fatto abbastanza. Talmente tanto, che sono a posto per molto molto tempo. Talmente tanto, che se ti fossi un po' moderata, probabilmente sì, l'avrei condiviso con te.
Ma no. Dovevo farlo io. O sarei stata per l'ennesima volta la bambola di pezza. Avresti fatto tutto tu, e io mi sarei sentita l'ennesima incapace, l'ennesima fallita con dei problemi vergognosi.
Ovviamente questo non l'ho capito subito. Non avevo capito cosa ci fosse dietro quella rabbia, dietro quella voglia di metterle le mani addosso. L'ho capito dopo, e dopo la terapeuta mi ha detto anche "Brava". Quanto mi piace, quando mi dicono che sono brava.

"Mamma, levati dal cazzo, così almeno la mia, di pazzia, la guarisco."

venerdì 8 giugno 2012

Il riscatto di uno stato interessante.

Ecco.
Sì, insomma, gliel'ho detto. Mi è uscito così, a raffica, tra un sorso di birra e un respiro di sigaretta, un po' come ora, mentre scrivo.
Come avevo già accennato in qualche post precedente, in quei giorni non facevo altro che pormi sempre la stessa domanda: "Cosa vorrei che mi rispondesse la gente?"
E questa stessa domanda me l'aveva ficcata in testa K, che me lo chiedeva ogni volta, che cosa dovesse fare con me, come dovesse prendermi. Ma io non ho un copione, questa non è una sceneggiatura.
Quello che avevo in mente (come sempre) erano solo delle sensazioni. - Avresti dovuto proteggermi, avresti dovuto essere con me, in me. - Ma non sapevo nella pratica come renderle, non sapevo attraverso quali gesti avrei potuto ottenerle.

Con M scorreva un flusso, in quelle quattro mura. Il flusso delle mie parole, del mio pianto. Perchè piangevo. E' stato come spogliare il proprio corpo finalmente cresciuto davanti a qualcuno per la prima volta. L'insicurezza, la vulnerabilità. E anche la vergogna, quella tanto simile al concetto di peccato cristiano.
Non lo guardavo. I miei occhi erano bassi, il corpo chiuso. Non lo guardavo. Ma avvertivo tutto.
Avvertivo la sua angoscia in qualche sospiro.
La sua rabbia in un "Cazzo...", che come li dice lui, è veramente assurdo. Li modella a suo piacimento, con l'espressione della voce, certe volte fanno ridere e certe volte t'ammazzano. Quello ammazzava.
Le sue mani sulla faccia, per coprirla.
E poi ho finito di raccontare i fatti. Ho cominciato con quello che sentivo. L'ho lasciato a metà, che dovevo smettere, respirare, poi avrei ripreso.

E lui, in silenzio. Avrei dovuto pensare "Eccone un altro, che s'avvolge nellla coperta e cerca di sparire".
Invece no. No. Era un silenzio pieno. Il silenzio di tuttii i veri uomini della mia vita, racchiusi in quei pochi momenti. Il silenzio di un padre, di uno zio, di un amante, di un fratello, di un amico. Il silenzio di chi ti ha sempre accarezzato e tenuto per mano. Un silenzio nato perchè l'avevi colpito, e tanto.

E poi delle parole, delle frasi che non uscivano. "Non credo di poter dire nulla. Credo solo che ora tu debba viverti questa sofferenza, come puoi, senza combatterla. Credo che tu debba lasciartela scorrere attraverso,qui". Questo ha detto, dopo minuti e minuti e minuti di lotta con se stesso.
E in mezzo a quelle parole dei singhiozzi. Non l'avevo mai sentita la sua voce, così. Una voce calpestata, febbricitante, tremante. Sì, M tremava tutto.
Così mi sono girata per un attimo. E ho visto i suoi occhi lucidi, le sue guance bagnate.

Era questo. Era questo quello che volevo. Esattamente quella sensazione che mi stava correndo dentro, che andava avanti e indietro dal mio al suo corpo. Uno scambio di cose che erano nell'aria. Inalavamo il respiro dall'altro, lo riempivamo di noi, ce lo restituivamo.
Era questo quello che volevo. Una pizzico, una scintilla. Uno specchio nel quale riflettermi. Un attimo in cui la solitudine era annientata. Demolita, distrutta, morta.

L'avrei voluto abbracciare così tanto. Avrei voluto dirgli delle cose, guardarmi dentro di lui.
Ma io sono sempre stata una vigliacca, e così mi sono girata dall'altra parte, ritornando al mio sguardo basso e al mio corpo chiuso.

Poi gliel'ho scritto. Gliel'ho scritto ultimamente, in una di queste notti, cosa avevo sentito. L'ho ringraziato. Perchè in quel momento aveva riempito esattamente quella parte dentro di me essenziale per guarire. Quella che mi avrebbe dato la forza per non crollare.

Per un attimo ho pensato che l'avrei voluta sua, quella cosa che avevo in pancia.
C'è stato un lungo ed intensto abbraccio, quando ci siamo lasciati.
Sono uscita da quella casa leggera, come m'avrebbe voluto la ginecologa dopo le sue parole.
La sensazione di averlo amato e averlo già salutato, il mio essere che cresceva.

Sì, credo che in quell'attimo io abbia amato il mio quasi bambino.
Finalmente mi sentivo libera di ucciderlo.

giovedì 7 giugno 2012

Il destino di uno stato interessante.


C'è una persona che mi accompagna da più di cinque anni. Non ne ho mai parlato, e non credo ne parlerò ancora, se non riferendomi al fatto, a questo fatto di cui parlo da un po', e che prima o poi dovrò abbandonare, perchè la mia vita si recherà altrove, e magari finalmente riuscirò a scrivere d'altro all'infuori di me.
Questa persona la conobbi in un modo strano, in un paese molto lontano, sebbene la nostra provenienza fosse la stessa. La relazione si è sviluppata in modo ancora più strano.
Di certo a 15 anni non credevo che saremmo stati legati tuttora.
Non so come descrivere il nostro rapporto, in effetti.
Diciamo che le nostre vite, dopo quell'incontro, sono sempre state distanti ma estremamente unite. Stessa città, ma quartieri agli antipodi. Per parlargli della nostra lontananza dico sempre che ci separano due fiumi, il Tevere e l'Aniene. Mi viene in mente una canzone di Lucio Battisti. "E' troppo grande la città per due che come noi non speran, però si stan cercando."

Capitava che certe volte sentissimo il bisogno di stare vicini, in uno stesso luogo, in una stessa stanza.
Ci vedevamo un paio di volte l'anno, e ci ritrovavamo cresciuti e cambiati allo stesso modo. Sempre allo stesso modo. Nonostante i nostri scarsi contatti, più passava il tempo e più ci trovavamo vicini.
Ad M non ho mai nascosto nulla. Ad M ho parlato (sì, ho usato la mia voce) delle sue paure più profonde, del suo futuro, delle sue speranze, della sua concezione di Amore e Dolore. M mi ha spiegato le mie paure più profonde, il mio futuro, le mie speranze, la mia concezione di Amore e Dolore. M mi aiutava a tradurre in parole quello che non avevo mai avuto il coraggio di esprimere.
Io e lui ci scriviamo di notte.
Quando ci vediamo aspettiamo sempre il buio, o l'alba, insieme.
Ci chiudiamo in camera sua, o in una casa, e parliamo, e lui mi fa ascoltare la sua musica, non accendiamo mai la luce, e fumiamo come dei dannati, fino a star male, fino a sentire il pizzichio al naso e alle dita.
M non lo troverò in nessun altro posto.
Quando siamo io e lui, creiamo qualcosa. Qualcosa di profondo e irrazionale, qualcosa che, se davvero seguissimo, ci porterebbe alla morte, alla pazzia, o alla Vita. Per questo c'è anche tanta paura.

Nemmeno la gente intorno sa come descrivere quello che abbiamo, e molti guardandoci hanno sempre pensato che fossimo (stati) amanti. Forse, in un certo senso. Ma mai in quel senso.

Era M la prima persona alla quale volevo parlare del mio dolore nella depressione.
M era la prima persona che volevo chiamare quel giorno, quando ho scoperto di essere incinta.
Non è mai stata la prima, in entrambi i casi. I motivi non sto a spiegarli, che già mi sto dilungando.

Avevamo ricominciato a vederci ad aprile, la settimana prima che partissi per Parigi. E avevamo capito che stavolta avremmo cominciato a rivederci un po' più spesso, perchè non eravamo mai stati così deboli e fragili, e avevamo bisogno l'uno dell'altra.
Poi  scoprii che proprio in quel giorno, il primo aprile, rimasi incinta. Poche ore dopo averlo visto.

M è uno che io sto male, e sta male anche lui. Ma non di riflesso. Capita che stiamo male insieme, anche se non lo sappiamo.
E' uno che io sogno i tornadi, e li sogna anche lui.
Io faccio un incubo, mi sveglio alle 6 di mattina e alle 6.05 mi arriva un suo messaggio, e mi chiede se sto bene.

E' uno che "sai, adesso mi danno i farmaci", e poi "sai, li sto prendendo anch'io".
"Ho cominciato ad avere attacchi di panico" "Quando?" "Due mesi fa" "Anch'io".
Ma anche "sto bene". Ma in quei periodi raramente ci parliamo. Il nostro rapporto è legato al dolore.

Con M è tutto così. Ma lo è sempre stato.
E' anche per lui che sono ancora viva. Quando ci sono quelle notti, quelle brutte, veramente brutte, in cui ti disperi perchè l'Universo ti si sta appoggiando addosso e ti soffoca, quelle notti in cui c'è quella luna straziante, io sopravvivo ogni volta.
Perchè so che da qualche parte c'è lui. Nel mondo c'è lui. Non sono sola. E quindi mi tranquillizzo.

Un paio di giorni dopo la visita ginecologica ci siamo visti.
Non gli avevo ancora detto nulla. Insomma sì, gli avevo accennato di una catastrofe, ma non avevo il coraggio di specificarne il tipo.

Eravamo a casa del padre. Una casa col soffitto di legno, che scricchiola. Io mi sentivo di ghiaccio. Non sapevo, non sapevo proprio come cominciare. Ogni tanto lui ci provava, a chiedere, ma io deviavo, io scansavo, mi giravo, o semplicemente glielo dicevo. "Aspetta un'altro po'. Un altro po'".
Ma lui lo capiva. Così abbiamo cominciato a parlare d'altro, a parlare di cose. Io però non prendevo coraggio, non ci riuscivo. "Vigliacca", mi dicevo. Come fai a non dirlo a lui? Tu DEVI dirlo a lui. Trova un modo.
No, non glielo dico, non glielo dico. La prossima volta magari. Ora è troppo cazzo, non ci riesco.
Ho deciso, ora no, farebbe troppo male con lui.

Poi ho pensato che volevo una birra, che con una birra la smetti di blaterare fra te e te perchè più di una conversazione non la reggi. Mi sono diretta verso il frigo.
C'erano tre bottiglie, tutte diverse. Marche a me sconosciute. Mh, vabbè, una vale l'altra.
Ne avevo già una in mano. Poi ho abbassato lo sguardo. In un angolo c'era una lattina.
L'ho tirata fuori, ho cercato la scritta. L'ho letta.

Best Brau. 9,8% d'alcol.
La stessa del primo giorno di disperazione, la stessa di quando dovetti raccontarlo a G.

Come ho già scritto in un commento, cito Penelope Cruz in  Non ti muovere:
"La mia vita è stata tutta così: piena di piccoli segni che mi vengono a cercare".

Ho sorriso, mi sono seduta vicino a lui, ho aperto la lattina di birra, ne ho bevuto un sorso.
Ho chiuso gli occhi.
E ho fatto uscire fuori la voce.

mercoledì 6 giugno 2012

Le atroci rivelazioni di uno stato interessante.


A 14 anni ho cominciato ad incazzarmi col mondo. Non sto qui a spiegarvi il perchè, che tanto è sempre legato alle solite turbe adolescenziali.
Ascoltavo metal, vestivo di nero, avevo dei capelli rossi lunghissimi e  mandavo a fanculo certe cose. Ero talmente arrabbiata, anche se non sapevo bene verso chi o cosa, da avere il coraggio di chiudere col mondo. Mi sentivo forte e superiore. Magari no, lì per lì non mi ci sentivo, ma ora so che a quei tempi mi sentivo di gran lunga più forte e superiore rispetto ad ora. Accade che poi un giorno ti svegli un po' più debole, e magari nel mondo ci vuoi rientrare, anche solo per dare una sbirciatina, solo che non sai più come fare.
Non riuscivo più ad entrare in certi processi logici della gente comune. Così alla fine sono rimasta fottuta, alla fine il mondo aveva tagliato fuori me, e io nemmeno me n'ero accorta.

A quell'età avevo vari presentimenti sul mio futuro, varie sensazioni, ma su tre ero totalmente certa:

1. Sarei morta verso i quarant'anni. Sentivo un suicidio, ma poi ho pensato anche al cancro. Vedremo.

2. Avrei abortito,
3. Non avrei mai avuto figli perchè in un certo senso sarei stata sterile. (E perchè non li voglio)

Ecco. Ora mi ritrovo fra gli ultimi due punti. Avvertivo queste due cose, e non riuscivo a collegarle tra di loro. Com'è possibile sentirsi aridi dentro e al tempo stesso sapere che avrei abortito? Non ne trovavo il senso. Voglio dire, è impossibile, logicamente parlando. Eppure...
Ma poi non ci ho più pensato.

E non ci ho pensato nemmeno il giorno dopo aver visto K, un mercoledì. Anzi, il mercoledì. Il mercoledì della visita ginecologica.

L'assistente sociale aveva avuto l'accortezza di prendere un appuntamento con un medico donna, visto che sarebbe stata la mia prima visita in assoluto, e insomma, già è traumatizzante cominciarle così, figuriamoci pensare di farmi spulciare da un uomo, proprio ora che l'uomo un po' lo detesto.
Così, sempre scortata dalle mie fedeli compagne d'avventura, sono ritornata per la terza volta in Via di Pietralata 147.
La donna era una bella donna. Magra, un po' arcigna anche lei, ma mi piaceva. La sua voce era gentile. Mi ha fatto sedere, mi ha spiegato dove e cosa avrei dovuto firmare.
Dopodichè: accomodati lì sul lettino, togliti pantaloni e mutande.
Mi accomodo, mi tolgo pantaloni e mutande. Mi posiziono, che tanto me l'avrebbe chiesto, tantovale farle risparmiare tempo.
E devo dire che per quanto io non abbia la benchè minima paura dei dottori, e quindi riesca ad essere sempre molto rilassata durante le visite, la donna mi ha fatto male.
Spingeva contro le pareti, sembrava volerle allargare, e poi sembrava voler scavare, per quanto è andata in fondo.
E poi ha cominciato a parlare:

"Mh...Hai un utero molto piccolo e stretto. Diciamo che non è proprio il più adatto alla gravidanza."

Silenzio.

"Mh... Hai avuto delle perdite?"
"Veramente no."
"Le avrai. C'è un distacco della placenta. Pensa, molto probabilmente questa gravidanza non l'avresti nemmeno portata a termine."

Era leggera. E l'ha detto in maniera leggera, come se la cosa dovesse sollevarmi, come se la mia coscienza potesse guarire, perchè tanto, voglio dire, alla fine quella cosa sarebbe morta comunque, quindi in realtà è come se io non avessi fatto nulla. Nulla di male.

E invece io mi sentivo appesantita. Sentivo la testa pesante, pesantissima, il corpo pesante, pesantissimo.
Ma come. Tutto questo sforzo, tutto questo dolore, tutta questa debolezza, e in realtà non è nulla? Non ci sarebbe stato nulla?
Pensavo a quella sera, a quando mi guardavo allo specchio. Al mio sentirmi forte, al mio creare, a quella vita.
Pensavo a quanto fossi stata stupida. Come potevo aver creduto di potercela fare?
Un utero inospitale, una persona inospitale, con una testa e un corpo inospitale. Un ferro ai minimi storici, proteine manco a vederle col cannocchiale. Cosa pretendevo? Di cosa mi ero illusa, esattamente?
Succede che anche quando non vuoi una cosa, dopo averci fatto l'abitudine ed aver accettato la condizione, non puoi sopportare il fatto che tutto cambi. Un'altra volta stavo perdendo l'equilibrio.

"Vabbè, ma che poi è inutile stare troppo a parlarne, no? Per ora non è un problema, è inutile preoccuparti per questa cosa, ora, infatti nemmeno sto qui a spiegarti troppa roba.
Quando vorrai figli seguirai tutto passo passo. Ora abortirai, no?
Mi raccomando, se le perdite cominciano a diventare sempre più frequenti, corri in ospedale. E col foglio dell'interruzione bello e firmato, occhei? In bocca al lupo."


Era da tanto che non ripensavo ai miei 14 anni. Uscita da quella stanza mi sono bloccata in mezzo al corridoio. E lì ho capito.
Avevo 14 anni, e non mi sbagliavo.
Mi sentivo arida, e lo ero, in effetti. Non era sterilità, era semplicemente impossibilità nel creare. Solo questo. Certi tipi di creazione non fanno parte di me. E in effetti è così. Io disegno, scrivo, suono, canto. Ma bambini mmmh, di quelli non ne creo.
14 anni e non mi sbagliavo. Per questo, lì, in quel corridoio, ho pensato che no, non avrei avuto delle grandi perdite, quell'essere non se ne sarebbe andato da solo. Io l'avrei abortito nonostante la più completa aridità del mio corpo.

Abortire ed essere aridi allo stesso tempo.
Io lo sapevo, lo sentivo.
Ho respirato un po', lentamente.
Mi sono ringraziata. Ringrazio quella ragazzina, che seppur accecata dalla rabbia ci vedeva estremamente bene, e che mi ha reso quel momento non di certo meno doloroso, ma almeno gli ha dato un senso.
Un fottuto senso.

martedì 5 giugno 2012

Le umiliazioni di uno stato interessante pt.2


* [Faccio finta di niente. Riprendo da dove ho lasciato, perchè un po' sono una perfezionista, e mi da fastidio anche il fatto di non essere riuscita a scrivere tutto in tempo, prima del gran finale. Ma è anche un po' per la terapia, è anche un po' per dimostrare a me stessa che se anche le cose non sono perfette come voglio, meritano comunque di essere portate a termine, perchè sono mie e devo impormi di credere che anche se sono imperfetta sono comunque migliore di molte altre esistenze. Sì, questo devo ficcarmelo bene in testa.
E poi così ho il tempo di ripercorrere un po' la mia memoria, di inciderla, per non dimenticare, e soprattutto ho il tempo di metabolizzare cosa mi è successo una settimana fa.]

Eravamo a K, sì, lui. All'uomo che mi ha messo incinta dopo un anno e qualche mese di... non so bene di cosa. All'uomo che mi guarda con gli occhi della pietà.
Perchè poi abbiamo litigato. Sì, perchè io non riuscivo a credere che fosse davvero così. Che l'empatia fosse svanita. E così ho cominciato a creare discorsi, a immaginare per lui, per cercare di farlo entrare dentro, di fargli sentire un po' com'era essere lì, in compagnia di quello che la mia terapeuta non smette di chiamare "il piccolo esserino dentro di te".

Forse avrebbe i tuoi occhi, i miei capelli. Nascerebbe verso la fine di dicembre, o gli inizi di gennaio. Proprio come me e te. Un terzo Capricorno. O una terza. Sarebbe un maschio, e avrebbe la tua forza. Sarebbe una femmina, e avrebbe la tua gentilezza.
Se io ora non mi muovessi, non facessi assolutamente nulla, una vita potrebbe comparire a breve in questo mondo. Per me e per te. Se solamente io restassi immobile, nascerebbe nostra figlia. La nostra. Una metà di me e una metà di te unite insieme per sempre, su questo mondo.

"Sì, lo so, ma questa è la cosa più giusta da fare".

Come se avesse paura che io potessi tenerlo. Come se avesse una fottuta paura che io uscissi di matto.
Ho ingoiato, un'altra volta. Dopodichè gli ho detto che allora sì, evidentemente non poteva capire perchè ero io ad avere dentro quella cosa.
"Senti, qui nessuno vuole toglierti il trono della sofferenza, come al solito..."

Occhei. Ho deglutito un'altra volta.
E poi: "No, scusa, ho capito, ora te lo dimostrerò"

Occhei. Ho sospirato.
Occhei. Vediamoci, vieni a casa mia.
Guardiamoci un film a letto, che io ho dolori dappertutto.
E poi chiedimi come sto. Io ti risponderò che sto male, che vorrei strapparmi via lo stomaco a causa della nausea che ho tutti i santi giorni per tutto il giorno. Ti risponderò che sto male perchè mi fa male dover fare quello che devo fare.

Occhei, abbracciami.
Occhei, baciami.
Ma non così forte. Non con quella mano. Non sotto la maglietta. Ti ho detto che mi fa male il seno.

E per favore, non chiedermi di fare sesso.

No, ti prego, non chiedermelo.

Click. File cancellato.
Da quel giorno, per salvaguardare me, per salvuaguardare quel debole equilibrio che ero riuscita a trovare dopo la depressione, per salvaguardare la mia pancia e l'energia che c'era dentro, l'ho bloccato.
Ho bloccato ogni emozione verso di lui. Ho bloccato la rabbia, l'angoscia, la violenza, la tristezza.
Nemmeno una lacrima.
Occhei, mi hai dimostrato. Ora sei fuori.
L'ho fatto uscire di casa mia dopo un paio d'ore, con un sorriso.

Da quel giorno lui non avrebbe più saputo nulla di tutto ciò, fino alla fine.
Da quel giorno mi sono svuotata di tutto quel poco che era rimasto per lui.