martedì 29 maggio 2012

*

Oggi non so che scrivere. Oggi non voglio scrivere.
E' stata una brutta giornata. E' stata 'quella' giornata.
E' fatta, sono vuota.

Vuota.

domenica 27 maggio 2012

La solitudine di uno stato interessante.

 


Le 12.30. Tra meno di un'ora K avrebbe finito le lezioni.
Ho riaccompagnato G e F a casa, che tanto avevo tempo, e mi sono imbarcata per il grande viaggio verso il centro, verso il mio ex liceo. Lo scelsi lontano perchè ero stufa del mio quartiere, stufa di quella gente e di quell'ambiente. Sì, sono sempre stata un po' snob ed ho sempre sognato per me dei posti elitari. Non che il mio fosse un liceo d'élite, ma mi sarebbe potuta andare molto peggio.

Sono arrivata un quarto d'ora prima, così mi sono accostata lì davanti, in quadrupla fila, ad attendere. Era da un po' che non ci tornavo. Non ho sentito nessuna particolare nostalgia, piuttosto avevo il timore di incontrare persone e professori conosciuti. No, proprio non me la sentivo di far finta che la vita fosse una gran giostra piena di divertimenti. Ma qualcuno è arrivato, qualcuno che fortunatamente ama parlare, dunque non mi sono dovuta sforzare più di tanto.

Dopo qualche minuto K è apparso, e dopo qualche altro minuto guidavo verso chissà quale posto. Ovviamente lui non aveva idea di dove andare, come al solito.
Abbiamo parcheggiato vicino al Colosseo e di fronte al parco sovrastante, ma non siamo usciti, io non ne avevo voglia.
Non mi ero preparata alcun discorso, che poi nemmeno sono capace a pensarli, discorsi del genere, così l'ho detto come mi veniva. L'ho presa un po' alla larga, per dargli il tempo di poterlo realizzare da solo, ma non credo di esserci riuscita.

"Senti....Alla fine non ce l'ho fatta ad aspettare, e il test l'ho fatto ieri. Mi sembrava di stare a perdere tempo, così ho tagliato la testa al toro. E infatti avevo ragione. Sono andata al consultori e...bla bla bla"

E gli ho raccontato tutto, tutto fino a quel momento. E quando gli ho parlato della stronza ho pianto un po'.
Poi mi sono fermata, perchè non so, aspettavo che dicesse qualcosa. L'ho guardato, e lui guardava me. Ma aveva uno sguardo che non mi piaceva. Uno degli sguardi più orrendi che una persona possa rivolgerti in questi momenti.
Pensavo a come descriverlo ma poi mi è venuta un'immagine. Lo sguardo di pietà della Barbara D'Urso. Era quello, esattamente quello. E ho avuto una sensazione strana; più lo guardavo e più lo spazio tra i nostri due sedili sembrava allargarsi, finchè non l'ho visto lontano, lontanissimo. Ho cominciato ad odiarlo. Se ne stava lì a provare dispiacere per me, senza un minimo di coinvolgimento.
Non ha detto nulla se non "dai, che tanto tra un po' passa tutto, pensa a quest'estate che arriverà"
Avrei voluto spaccargli la faccia. No, non passa un cazzo, non passerà mai, per te passerà, per me no. Questa cosa rimarrà sempre, e anche te rimarrai sempre, mentre tu fra vent'anni te ne dimenticherai.

Così ho improvvisato sul momento e ho detto che sarei dovuta andare a prendere mia madre al lavoro, visto che era di strada. Lo volevo fuori, fuori da quell'auto il prima possibile.

Io non so cosa volessi da lui in quel momento, ma so che non riesce mai ad esserci. Mi ha stressata col suo egoismo durante la depressione, e questo non lo dimenticherò mai, e ora, ora che condividiamo un vero, grande e tangibile problema, un problema 'nostro', l'unico problema che può essere definito veramente come 'nostro', lui mi ha dato l'ennesima prova degli anni luce che ci sperano.

Ma ho chiuso un occhio, l'ho giustificato. 'In fondo, anche se non era una notizia completamente inaspettata, magari è sotto shock.'
Ma la sera gli ho fatto una domanda semplice: "Cosa pensi?"
"Ma che ne so... Ho mille pensieri che mi passano per la testa però so tutti disordinati"
"Vabbè, ma non hai proprio nulla da dire? Cioè, almeno un quarto di uno dei mille pensieri che ti sfiorano?"
"Eh, quando li riordinerò saraà la prima a saperlo."


"Alla fine...me dispiace".


Alle fine, a lui, glie dispiace.

sabato 26 maggio 2012

Lo sfogo di uno stato interessante.

 


La madre/assistente sociale mi ha fatto riempire una scheda con tutti i miei dati. Lei scriveva, ed ogni tanto accennava alla tristezza della cosa.
"Tu sei sicura di voler optare per l'interruzione? Sai cosa comporta psicologicamente?"
"Non si preoccupi, io vado già in terapia, ancora non gliene ho parlato, ma sicuramente lo affronterò con lei, insomma, non sono sola."

E poi ho cominciato con un fiume di parole.
"Che poi...Si rende conto? Sa perchè vado in terapia? Sono appena uscita da una forte depressione, io. Mi stavo rimettendo in piedi, stavo ricominciando a progettare, a fare... E poi rimango incinta. E si blocca tutto un'altra volta. Che madre sarei? Una madre che soffrirebbe sicuramente dell'amatissima depressione post partum e che soprattutto non vuole questo bambino, alla sola idea rabbrividisce, con un compagno incompetente e talmente debole da avere anche la faccia tosta di affidarsi a lei, di appoggiarsi a me. Una madre infelice che non sa nemmeno se il giorno dopo avrà voglia di togliersi la vita oppure no. Quindi sì, sono sicura, e come al solito mi prenderò la sofferenza che ne comporta, non si preoccupi."

Sembrava quasi più serena dopo le mie parole, vai a capire perchè. Da quel momento non mi ha più chiesto cose personali.

"Allora...Mercoledì prossimo farai la visita ginecologica, sempre qui al consultorio. Ti metto all'inizio che c'è troppa gente, così lo fai subito e poi te ne puoi andare. Dopodichè chiamerò il Pertini per due appuntamenti, uno per le analisi e un altro per l'operazione. Saprai tutto la prossima volta che vieni. Ovviamente hai tutto il diritto di ripensarci, fino al giorno stesso dell'operazione, quindi tranquilla, occhei?"

Mi ha congedata con un bigliettino e un sorriso, e io me ne sono tornata nel mio porto sicuro, da G e F, che vedendomi piagnucolare hanno cominciato ad inveire contro la dottoressa stronza. Adoro questo tipo di reazioni. Il complotto nudo e puro, la complicità intima, la difesa a spada tratta.

Ma non avrebbero potuto difendermi da K. E io quel pomeriggio avrei dovuto dirgli tutto. Ancora non sapeva nulla, e io sapevo che questa sarebbe stata l'ennesima prova. Avevo paura perchè sapevo che nonostante il problema fosse 'nostro', io mi sarei sentita immancabilmente sola, anche fra le sue braccia. Speravo che avrebbe detto le cose giuste, anche se non sapevo quali sarebbero state.

Ovviamente non è stato così.

venerdì 25 maggio 2012

Le umiliazioni di uno stato interessante.


La mattina dopo sarei andata al consultorio a presentare le analisi, e poi ci avrebbero pensato loro a sballottolarmi da una parte all'altra. Ma poi mi sono ricordata di mio padre, della banca, e della mia prima carta di credito, quella che mi servirà per riuscire a  pagare alloggi e corsi una volta arrivata a Parigi. Parigi.... Di certo ora pensavo a tutto meno che ai viaggi. Ma non potevo rimandare, mio padre aveva preso un permesso dal lavoro. Speravo solo che avremmo finito presto, perchè poi "io e G dobbiamo andare a Porta di Roma per un regalo, e lei può solo la mattina". Altre bugie. Altra macchia di vergogna sulla mia detestabile coscienza.

Alle 10.30 avevamo concluso, così ho lasciato mio padre a casa e sono andata a prendere le mie amiche. Sembravamo complici di un segreto delittuoso, e forse questa definizione è quasi legittima.
Così sono ritornata lì, spaesata come al solito. Era tutto vuoto, non c'era nessuno, così ho ripensato di immettermi ancora una volta nel corridoio e di ritentare la tecnica del placcaggio dei dottori.

Eccola. Una donna magra, arcigna, di mezza età, biondissima, con occhiali allungati dalla montatura nera e una gonna a fiori ed il suo camice bianco. Una donna che da lì a un minuto avrei odiato.
"Salve, sono qui per un'interruzione di gravidanza, ieri mi hanno chiesto di fare le Beta HCG, così le ho portate e..."
"Ah, sì, sì, non aggiungere altro, già lo so, vieni, vieni."

Siamo entrate nella stanza. Ma lei si è fermata ed ha cominciato a guardarmi.
"Beh?", aveva gli occhi a palla, giganteschi. Sembravano volermi inghiottire.
"Cosa?" e io ero parecchio intimidita.
"La cartella?"
"Quale cartella? A me hanno dato solo questi fogli al Poliambulatorio, non me li hanno nemmeno imbustati..."
"No, scusa...La cartella dell'assistente sociale", con una voce stridula e antipatica.
"Eh, infatti credo di doverla ancora fare, mi avevano detto che oggi avrei dovuto prendere l'appuntamento" ...Se solo mi avessi fatto finire di parlare prima ci saremmo evitate questa pagliacciata.
"Ah, e allora aspetta che mò ci parlo io, tu vai in sala d'attesa". Ed era anche scocciata.

Così ho aspettato con le altre. Dopo due minuti mi chiama e mi chiede:
"Scusa, ma tu di che zona sei?"
"Eh, io sono di Rebibbia."
"E allora perchè sei venuta al consultorio di Pietralata?" Ed è stato come se mi avesse pugnalato al cuore, con quella voce e quegli occhi.
"Non lo so, era l'unico che conoscevo in realtà, e sono venuta qui" Avevo un fazzoletto in mano, causa allergia. Cominciavo a sentire che da lì a poco sarei scoppiata, così cercavo di apparire più raffreddata che disperata. Cercavo di coprirmi il più possibile, stavo morendo dentro.
"Eh, ma la nostra assistente sociale è impengata, sai quante vengono qui, non è che puoi venire qui a occupare tempo, tu devi andare a quello di San Basilio, è inutile che vieni qui che non è nemmeno la tua zona, scusa"

Mi sono sentita una merda.
"Ah...Quindi mi sta dicendo che devo andarmene a San Basilio?"
"Eh beh, vedi tu, noi qui siamo impegnati".

Un attimo di silenzio, forse aspettava che me ne andassi. Ma mi sono fatta forza, avevo bisogno di chiedere una cosa.
"Ma che poi...L'assistente sociale, a cosa serve?"
E lei non capisce più nulla.
"Come a cosa serve? Oh, guarda che stai facendo una cosa grave eh, bisogna seguire le procedure legali, non è che vieni e fai quello che vuoi. Poi se lo chiedi anche con questo tono..."
"No, scusi, ma quale tono? Io volevo solo un'informazione perchè non so niente sulle procedure, quindi volevo cercare di capire..."
"Sì, vabbè, però non si fa così..."

E niente, c'era riuscita. Già i miei ormoni normalmente sembravano ballare la macarena, in quel momento trattenere il pianto mi sembrava la cosa più difficile del mondo, e mi sono odiata, perchè sembravo un cane bastonato, umiliato per l'ennesima volta, e no, no che non volevo mostrarglielo, a quella stronza. E invece si sa, gli ormoni.

"Vabbè, ho capito, mo vedo di fissarti un appuntamento con quelli di San Basilio, rivieni dentro"
Ha cominciato a chiamare, la stronza. Ha sbagliato numero due volte, e tutte e due le volte ridacchiava con quello/a all'altro capo del telefono. Non mi sono mai sentita così miserabile.

Poi il miracolo, sul serio.Una donna è entrata. Capelli castani, occhi azzurri e stretti, tratti un po' nordici, pelle chiara.
"Scusa, se vuoi la ragazza posso prenderla io, eh?"

Tiè. Muori, stronza.

Quella donna era l'assistente sociale. Mi ha portata nel suo ufficio, mi ha ospitata e mi ha parlato con una voce dolce e tranquilla, una voce che mi sembrava tanto quellla di mia madre, o quella di qualsiasi madre quando parla al proprio bambino per rassicurarlo, per accarezzarlo.
Avrei voluto arrotolarmi in una coperta a piangere, ma la coperta non c'era, così la donna/madre ha pazientato gentilmente che io finissi di lacrimare e singhiozzare e riuscissi finalmente a parlare.

giovedì 24 maggio 2012

L'accettazione di uno stato interessante.

Tornata a casa, mi sono precipitata a nascondere subito quei fogli, quella ricetta, quei testimoni scomodi. No, non avrebbero dovuto saperlo. Semplicemente non me la sentivo. Non ho mai avuto un rapporto molto aperto coi miei, poi in generale non mi sento mai a mio agio a parlare di me e dei miei sentimenti, e dirglielo mi sarebbe costato un sforzo che proprio non potevo permettermi di affrontare.

Così ho fatto finta di nulla, dicendo che era stato un pomeriggio divertente, che era da tanto tempo che io e le mie amiche non stavamo così bene. Ma poi, da sola, in camera, ho cominciato a guardarmi allo specchio.
Un profilo. Un profilo completamente piatto, come sempre, le solite ossa dei fianchi che sporgevano. Ma ora era diverso, ora sapevo che proprio in mezzo a quelle ossa c'era qualcosa.
In quel momento forse ho realizzato di stare avendo la possibilità di creare una vita. Della forza cosmica della quale ero investita. Mi sono sdraiata, e ho portato le mani alla pancia, concentrandomi sul calore che le mie pelli creavano toccandosi.
Già lo sapevo che non sarebbe stata una scelta facile. Voglio dire, quando sentivo parlare di ragazze più piccole di me che avevano già abortito, provavo sempre una sorta di doloroso e tragico rispetto nei loro confronti. Sentivo che nonostante fosse la scelta più intelligente da fare a quell'età, tutte loro sarebbero state comunque segnate dall'evento.

E invece quando mi chiedevo cos'avrei sentito io, se fossi stata nei loro panni, mi sembrava tutto più semplice. Non ho mai avuto il desiderio di avere bambini o di stare in loro compagnia, come accade invece alle mie amiche. Non ne ho mai voluti, mai ne vorrò, perchè so come sono, so di essere un'egoista, e non ho nessuna voglia di sacrificare la mia vita per un'altra persona, non ho nessuna intenzione di ridurmi alla normalità, come quelli che, raggiunta una certa età e avendo realizzato di non essere riusciti a raggiungere i propri obiettivi nella vita, decidono di ripiegare sul figlio. E poi mi sento ancora molto bambina, e credo di avere dei conti in sospeso con questa strana specie, perchè li invidio, li odio, e al tempo stesso non riesco a comunicare con loro, e mi imbarazzano.
Quindi credevo che per me sarebbe stato più facile fare questo passo. E invece...

Invece mi stavo accorgendo che era proprio una merda. Certo, l'idea che fra otto mesi, se non facessi nulla, potrebbe uscire un bambino (un cazzo di bambino) dal mio corpo e tutto quello che ne comportava mi faceva rabbrividire, ma...
La forza. Quella forza dentro di me. Tutte le energie incanalate verso la mia pancia. La creazione. Io in quel momento sentivo di star creando, sentivo di avere dentro qualcosa di veramente grande, forse una risposta, o un senso. Un'energia primitiva, talmente forte da piegare il mio corpo, da convogliarlo verso la produzione di qualcosa di intenso, autentico, naturale. Eh, sì, la natura.
Ecco, pensavo che forse di questo non mi volevo veramente liberare. Perchè per la prima volta nella mia vita sentivo dentro di me di star creando qualcosa di importante. Non è il bambino che mi mancherà, ma quest'energia, questa strana energia.

Sotto le coperte piagnucolavo. Sapevo che qualunque decisione avrei preso di certo mi avrebbe fatto parecchio male. Di certo mi avrebbe segnata per tutta la vita. Una persona o un fantasma, poco importava. Sapevo che non sarei stata più veramente sola.

mercoledì 23 maggio 2012

L'apprendimento di uno stato interessante pt.4

Raccontavo, e mentre raccontavo piangevo, appoggiata alla macchina, con la birra in una mano e la sigaretta nell'altra. G non mi ha giudicata, anzi. Per un attimo era come se avesse capito quanta ingiustizia c'era in quello che mi stava accadendo. Per questo mi ha detto "Se le cose devono accadere, accadono. Doveva succedere. Inutile pensare a cosa avresti potuto fare".

Siamo salite a casa sua, e io, che non sono proprio famosa per reggere l'alcol, già barcollavo. Nonostante questo continuavo a fumare e G, che dopo la sua trasformazione in 'brava ragazza' ha cominciato ad odiare tutto ciò che riguardasse alcol e divertimento, cogliendomi di sorpresa, mi ha offerto una crema di limone piuttosto forte.
"Fuma, bevi, fai quello che vuoi. So che le donne incinte non possono stare vicino ai gatti. Tiè, sniffa un po' il pelo di Annibale".
Abbiamo passato le ore fra calcoli e siti internet sulla gravidanza, sperando di trovare qualche sintomo che potesse ricondurmi al periodo. Avevamo calcolato, col calendario alla mano che se anche fosse accaduto il più in là possibile, avrei comunque avuto un po' di tempo. Insomma, non ero proprio fottuta. Ma io mi conosco, se c'è una cosa che deve andarmi male, se c'è qualche rischio che potrebbe capitare, io me lo becco. Per questo in quel momento non riuscivo a credere che avrei potuta scamparla.
Pensavo che avrei fatto di tutto, avrei cominciato a digiunare, mi sarei buttata dalle scale, avrei cominciato a bere e a drogarmi e a darmi cazzotti sulla pancia, pur di non avere questo bambino. Io non voglio nessun bambino. Ho sempre avuto paura di quelle creature strane e un po' malefiche.

Avevamo tempo, erano le 16.00. Così siamo andate a prendere F al Policlinico, che lei fa lezione lì. E proprio lì mi ero accorta di non avere più il celllulare. Ho chiamato mia madre, e lei già lo sapeva, perchè le aveva risposto una ragazza che l'aveva trovato per terra. 'Perfetto, vado a prenderlo'.

Ho ringraziato una certa forza superiore per non avermi inflitto l'ennesima batosta, ma poi mi sono accorta che quello sarebbe stato il minore dei mali. Mia madre, solo per il fatto che mi trovavo al Policlinico, da quel giorno ha cominciato a sospettare. E io l'ho odiata e la odio, perchè mi legge così bene, anche quando vorrei cavarmela da sola.

Raccattata F, siamo tornate al Poliambulatorio. Ho mostrato la ricevuta, mi hanno consegnato un foglio. Siamo uscite, io l'ho aperto, ma non riuscivo a capire. C'erano solo numeri su numeri. Poi ho cominciato a distinguere i 'miei' numeri da quelli dei valori di riferimento, ma non riuscivo a leggere le cifre, gli occhi si incrociavano, gli zeri non riuscivo a contarli; mi sono seduta, le mani mi tremavano.
Poi G ha preso in mano la situazione, gentilmente mi ha chiesto il foglio, è tornata dentro, e ha chiesto alla signora al bancone di leggerglielo.
Io e F l'aspettavamo lì sedute, finchè non è uscita a passo svelto ma spavaldo, con la faccia tranquilla.

"Tu hai 1950,80 di sta roba, occhei? Ciò significa che stai intorno alla 4° o 5° settimana, occhei? Stai proprio tranquilla, abbiamo tutto il tempo che vogliamo per fare le cose con calma. Daje. Ma infatti era impossibile che fosse di più, cioè, dai, non se poteva, dovevi essere proprio sfigata."

Fuori da quel Poliambulatorio ci siamo abbracciate, abbiamo gridato di gioia e abbiamo saltellato un po', piene di sorrisi in faccia. Sapevo che sarebbe stata l'ultima occasione di gioire, in tutta questa faccenda, e me lo sono goduto.

Meno male che sono solo sfigata a metà.



martedì 22 maggio 2012

L'apprendimento di uno stato interessante pt. 3

Poliambulatorio. Appena in tempo.
Ho dato la ricetta alla donna dietro al bancone, lei lo ha guardato e ha provato a trattenere (senza riuscirci) una risata.
"Scusa, è che credevamo che oggi avessimo finito con le analisi". Ma non c'era proprio un cazzo da ridere.

Ho pagato i miei 20 euro e 60 centesimi e mi sono seduta. Tempo cinque minuti e avevo una siringa al braccio. Tempo sette minuti e sono uscita con un po' di sangue in meno.
"I risultati puoi venirli a prendere stasera verso le 18.30".
Lo sapevo, sì. Sono uscita a passo svelto, mi sono accesa una sigaretta e più mi avvicinavo alla macchina più avevo voglia di correre verso di lei, per rifugiarmici dentro.
Il suono della portiera che sbatteva, e poi il nulla.
Avevo appena realizzato che non sapevo cosa fare, non sapevo dove andare, non sapevo come affrontare la cosa. Sono stata mezz'ora chiusa in macchina, e sentivo la solitudine di un milione di persone addosso. La solitudine che mi stavo creando in quel misero spazio accartocciato tra il metallo e la benzina. Volevo accendere la macchina e partire, ma ero lì, bloccata.

Volevo fare tutto da sola, volevo assumermi per una volta la piena responsabilità di ciò che sarebbe accaduto. Ma non ce la facevo, mi rendevo conto di aver bisogno di urlare il mio pianto addosso a qualcuno, ma a fianco a me il sedile era vuoto.

'Ho qualcosa dentro che sta crescendo, qualcosa di forte, che mi sta cambiando. E forse ho raggiunto il terzo mese, forse quel misero ciclo di tre giorni di un mese fa era solo una di quelle perdite che accadono in gravidanza. Forse è la fine.' Me lo ripetevo come un mantra. Avevo paura, una grande paura.

Così ho chiamato F e l'ho detto per la seconda volta.
"Cosa? Senti, ora non posso parlare, sono a casa di mia nonna sulla Tuscolana, non posso venire, chiama G"
E io ho chiamato G in lacrime, ma non rispondeva. L'Università, sapevo che era lì.

Così ho chiamato il mio ragazzo, che non era a scuola e che però era l'ultima persona con la quale volevo condividere la notizia, e soprattutto con la quale passare quelle interminabili ore di attesa.
Avrei dovuto attraversare la città come al solito.
Ma G ha richiamato, e sarebbe tornata a casa in venti minuti. Così ho inventato una scusa per K, e sono tornata nel mio quartiere.

Avrei dovuto aspettare. Sono entrata in un Todis e ho scelto la birra più alcolica che c'era, una certa Best Brau in lattina, col 9,8% d'alcol. Erano le 11 di mattina e io desideravo solo sentire tutto un po' meno intensamente. E poi avevo paura di dirlo a G, avevo paura di un giudizio, di un 'te l'avevo detto'. Io odio i giudizi, mi terrorizzano.
L'ho vista in lontananza, ci siamo avvicinate, e io l'ho abbracciata. Di solito non ci abbracciamo mai.
Mi sono sentita nel posto giusto, finalmente. Fra le braccia della mia migliore amica.Una delle poche persone per le quali ho imparato a nutrire un amore spassionato ed incondizionato. Ho ripensato che eravamo tornate un po' bambine in quell'abbraccio. 13 anni di amicizia, e tutto mi sembrava tenero e dolce come il primo giorno, come quando avevamo 7 anni. I nostri corpi, le nostre voci, i nostri occhi.

"Sono incinta"
"Oh mio Dio. Raccontami tutto."

giovedì 17 maggio 2012

L'apprendimento di uno stato interessante pt. 2

Via di Pietralata 147. Stringevo questo bigliettino tra le dita ed il volante, mentre percorrevo la Tiburtina. Ogni tanto un'ondata di terrore mi invadeva, l'idea di stare per affrontare qualcosa di immensamente più grande di me. Così piangevo, come non avevo mai pianto. C'era un cd di Edith Piaf che suonava, ed io piangevo, sulla Tiburtina, guidando, con questo dolore al cuore lancinante.

Via di Pietralata 147, non sapevo nemmeno che aspetto avesse. Ho parcheggiato, e ho cercato, finchè non ho trovato questa sorta di palazzina a un piano, decadente e rovinata. Non pensavo fosse quella, ho continuato ad andare avanti, ma poi ho visto due donne entrare.
Una volta lì, non avevo idea di cosa fare. La sala era affollata da madri e figli in attesa di una vaccinazione, evidentemente, e io non sapevo da quale parte andare, a chi chiedere. Ospedali e centri medici mi hanno sempre confusa parecchio. Così mi sono addentrata in un corridoio, ho chiesto, mi hanno detto che ho sbagliato reparto, sono tornata indietro, ho cambiato corridoio, e ho scorto una giovane donna col camicie in lontananza. L'ho placcata, lei mi ha accolta in studio per 'prendere l'appuntamento per una visita ginecologica', perchè in effetti io quello le avevo chiesto.

Poi ho aggiunto di essere incinta. Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce, anche perchè era passata solamente un'ora dal test, e qualcosa dentro mi ha punto, provocandomi delle leggere lacrime.
Continuava a scrivere. "Ah! E lo vuoi tenere?" Con una voce che sembrava rasentare l'ovvietà.
"No, non lo voglio tenere". Ho abbassato gli occhi.
La donna si è irrigidita e, stupita, mi ha mandato da un medico che non smetteva di chiedermi quale fosse la data delle mie ultime mestruazioni. Io non le segno mai, perchè le sento sempre arrivare, ho un rapporto molto diretto col mio corpo, non sto lì a fare preamboli. Dissi loro che non lo sapevo, e mi sentivo guardata, osservata, giudicata. O forse era solo una mia sensazione.

"Sì, ma senza le Beta HCG non possiamo fa' niente, aspetta che te lo scrivo così te le vai a fare"

'Che cazzo sono le Beta HCG?' pensavo. 'Che minchia di analisi devo fare?'

Un prelievo. Io ricomincio a frignare. Dove lo faccio il prelievo? Io conosco solo un posto privato, e non so nulla, non so se ci vuole un appuntamento, quanto tempo ci vuole - e io fremevo dalla disperazione. Avevo paura, paura di aver raggiunto il tempo limite. Paura di non poter fare più nulla. Mi sembrava tutto così complicato, così triste, così freddo...

"Le analisi che devi fare ti consentiranno di sapere da quante settimane sei incinta. Non ti preoccupare, attraversa la strada, vai verso la metro e il Poliambulatorio te lo ritrovi davanti, ti fai fare tutto lì, ci metti cinque minuti. I risultati di solito li danno già la sera, verso le 18, 19. Poi domani mattina torni da noi, e noi ti fissiamo l'appuntamento con l'assistente sociale."

Sono uscita da lì, ho chiuso gli occhi, ho fatto un bel respiro. Ho pensato a cosa sarebbe accaduto se fossi nata anche solo 40 anni prima. Ho pensato alle donne che hanno rotto i coglioni all'Italia, ho pensato a mia madre che era in mezzo a loro, e anche a quelle che andavano ad abortire clandestinamente.
Ho pensato che in fondo hanno lottato per persone come me. Stupide, deboli, tristi, ma che in fondo in fondo non se lo meritano così tanto, di soffrire in questo modo.

'Va bene, va bene. Una domanda alla volta, una cosa alla volta. Ce la puoi fare. Sei troppo disperata ed impaurita per non farcela. Vai. Vai.'

mercoledì 16 maggio 2012

Sommario.

Ecco, sì. Il post di prima, avevo il bisogno impellente di scriverlo, e non sono stata lì a fare tante presentazioni.

Beh, che dire. Sono un fiore, il 2012 mi sorride in qualisiasi campo io mi proponga d'addentrarmi.
Ho vent'anni. Ho studiato Lingue per l'Interpretariato e la Traduzione. 3 mesi. Sì, era quello che volevo, ma non era lì che volevo essere. Io ho grandi aspettative, grandi sogni, vedevo il mio futuro a Trieste. Invece un giorno mi sono svegliata e mi sono detta 'cazzo, è Roma, ancora'. Mi sono accorta di un'ennesima seconda scelta, e non potevo accettarlo.

C'ho provato, eh, ma tutto il mio corpo si è rifiutato. Ho dato il mio primo e ultimo esame il 19 gennaio. Uscita da quell'aula, esattamente poche ore dopo, ho cominciato la mia discesa verso la depressione.
Sì, signori e signore, la depressione. Quella che ti fa stare per mesi immobile a letto e ti fa piangere e ti fa sembrare che anche il solo respirare sia inutile. Quella lì. Farmaci e terapie e menate successive.

Poi mi sono ripresa, ho azzardato un viaggio a Parigi un mese fa, e ho ricominciato a progettare.
Sì, mi stavo riprendendo, eccheccazzo, me lo meritavo, dopo sedute su sedute a squartarmi l'anima davanti ai traumi infantili (e non) che io e la mia adorabile psicologa ci apprestavamo a sezionare ogni volta. Sentivo finalmente un sapore dolce in bocca. Il sapore del miele, e la dolce consapevolzza che nemmeno una caloria mi stesse invadendo il corpo.

E poi niente. Boom. Incinta di un ragazzo che non amo, e che per quanto mi sia sforzata per più di un anno non avevo amato mai. Un ragazzo che purtroppo, per quanto si sforzi di starmi vicino, riesce a farmi sentire sempre immensamente sola, soprattutto ora. Per questo, anche se lui ancora non lo sa, non mi accompagnerà nemmeno ad abortire.

Dopodichè partirò per la Francia, e poi per l'Inghilterra. Scapperò. Spero che il resto del mondo riesca a prendersi  cura di me, visto che è una vita che io non riesco a farlo.

Non so se questa sia una presentazione, forse no. Forse sono solo fatti, ma resteranno con me per sempre, come se fossero antiche maledizioni.

venerdì 11 maggio 2012

L'apprendimento di uno stato interessante.

Ho scoperto da una settimana di essere incinta.
E ogni volta, dopo aver pronunciato o pensato questa parola, la mia testa si blocca, non riesce più a pensare. Mi ci vuole sempre qualche minuto per riprendere fiato. Accade anche ora.

Da giorni avevo dolori al seno, ed ero stanca, stanchissima, non riuscivo nemmeno a concludere mezz'ora in palestra. In più, il ritardo. E io me lo sentivo, me lo sentivo dentro, che c'era qualcos'altro, che stavolta era diverso. Che queste sensazioni non le avevo mai provate, mai.

Ne ho parlato col mio ragazzo. E' stato come non parlarne affatto.

Mercoledì sera fremevo dall'angoscia. Dovevo sapere. Aspettavo la mattina seguente, e intanto cercavo qualche consultorio in zona. Io, che non avevo mai fatto nemmeno una visita ginecologica mi ritrovavo improvvisamente immersa in luoghi e procedure totalmente estranei.
La mattina era arrivata e con la scusa dell'allergia me ne sono andata subito in farmacia, trattenendo la pipì.

A casa, il test era positivo. Non ho avuto particolari reazioni. Quella era solo l'ennesima conferma, sì, ufficiale, ma una delle tante, e forse nemmeno la più importante rispetto a quelle che il mio corpo mi stava dando di continuo.

Quella mattina sarei dovuta andare a casa di una professoressa di francese a studiare.
Mi sono infilata in macchina, l'ho chiamata, ho rimandato, e mi sono diretta al consultorio di Pietralata.